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Bionic Bay Recensione: un platform veloce, frenetico e dannatamente divertente

Qualquadra non cosa in Bionic Bay, una strana sensazione mi ha accompagnato sin dai primi fotogrammi, ma non sono riuscito a metterla a fuoco per diverse ore. L’ambiente è oscuro, deformato, quasi oppressivo; il personaggio è silenzioso, alienato in un mondo che sembra vivere di regole proprie. Le superfici si piegano, gli oggetti fluttuano, la fisica sfugge alle leggi consuete. Ma ciò che mi ha davvero affascinato è stata la sensazione di giocare qualcosa di sfuggente, che potevo solo sfiorare, ma non ghermire. Non riuscivo a incasellarlo né a definirne i contorni con esattezza: un’esperienza che confonde, affascina e sorprende. Nel bene e, in piccola parte, anche nel male.

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Una pixel art di pregio porta a delle immagini davvero spettacolari

Killing me softly

Si muore tanto. Tantissimo. L’approccio trial-and-error è profondamente radicato nel design del gioco, tanto che la scelta di allontanare moltissimo la telecamera dal protagonista sembra quasi una necessità: un modo per evitare che la brutalità diventi visivamente insostenibile. La morte dello scienziato – il nostro avatar senza nome – non è mai punitiva, né spettacolarizzata: è un mero incidente di percorso. Una prova fallita che prepara la strada al prossimo tentativo. Così si gioca, si sbaglia, si riprova e ci si diverte.

A compensazione, c’è un sistema di checkpoint che aggiorna frequentemente la sua posizione e ci permette di ricominciare pochi passi prima del nostro incidente, a volte, con un eccesso di generosità facendoci persino ripartire oltre l’enigma ambientale che stavamo affrontando. Lo scrivo ora, così mi tolgo il pensiero subito, il principale punto critico di Bionic Bay sta proprio nella sua eccessiva facilità, un paradosso vero e proprio che spiegherò più avanti.

I comandi sono semplici ed intuitivi, oltre che perfetti e rispondenti, un tasto per il salto ed uno per rotolare (anche in aria, alterando la traiettoria del salto) più i tasti adibiti all’uso dei “poteri”, che variano di livello in livello a seconda di quali avremo a disposizione. Contrariamente a titoli più contemplativi come Limbo o Inside, con cui condivide soltanto una vaga affinità estetica, qui l’azione è frenetica. Si corre, si salta, si rotola, ci si aggrappa a razzi in corsa per raggiungere piattaforme lontane.

Tutto accade in fretta, ma con logica. Seppur non sia sempre chiaro cosa fa parte dello sfondo e cosa è interagibile, è sempre chiaro dove andare: il percorso non è confuso, ma molto lineare. Trattandosi di un genere davvero ampio, è necessaria qualche precisazione: direi che si colloca esattamente a metà tra un platform di precisione e un puzzle-platformer, con un ritmo di gioco che alterna momenti veloci ad altri più lenti e riflessivi. Sono andato avanti con il freno a mano tirato, guardandomi intorno e prendendomi il mio tempo. Sicuramente il titolo può essere completato in un tempo inferiore al mio, che è stato di nove ore, ma probabilmente si può portare a casa con agio in circa sette: un tempo comunque più che discreto per il genere d’appartenenza.

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L’inizio dell’avventura.

Show (don’t tell) must go on

La prima fatica congiunta dello Psychoflow Studio e del Mureena Oy, composto in totale da tre persone, si distingue per la sua essenzialità espressiva. Nessun tutorial, senza voce narrante, con pochissime finestre di testo, l’apprendimento avviene attraverso l’esperienza, una scelta di design che ho profondamente apprezzato. L’inizio è semplice: un esperimento scientifico fallisce, causando la prematura fine di tutti i colleghi dello scienziato, con lui unico sopravvissuto. La trama, in fondo, è solo un pretesto, mentre il gameplay ne è il vero protagonista. La vera trasformazione, tuttavia, avviene subito dopo: dopo essersi risvegliato su uno strano pianeta alieno, una scarica di energia misteriosa lo muta, conferendogli abilità straordinarie.

Il ritmo di gioco non è imposto dal sistema, ma si adatta al nostro passo, lasciandoci la libertà di modellare l’esperienza a nostro piacere, senza costringerci a seguire una cadenza predeterminata. Personalmente, l’ho affrontato in modalità Super Meat Boy, per poi rendermi conto che, pur non essendo impedito in alcun modo di correre freneticamente da un lato all’altro, un approccio più lento e riflessivo risultava altrettanto valido e che la scelta è pienamente nelle mani del giocatore. Tra le abilità, la prima è un’elasticità innaturale: salti potenziati, cadute da altezze vertiginose che lasciano illesi, rotolate impazzite. Non passa molto tempo prima che emerga il cuore meccanico dell’esperienza: il telecomando dello scambio. Toccando un oggetto, possiamo registrarlo e poi teletrasportarci al suo posto. Una dinamica semplice, ma geniale. Il laser ci punta? Ci scambiamo con una bomba toccata poco prima e lasciamo che sia lei a esplodere al nostro posto.

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Uno dei primi puzzle ambientali leggermente più complessi.

Space oddity

Dal punto di vista estetico, si tratta di un piccolo capolavoro di pixel art contemporanea. Ognuno dei 23 livelli, con il suo tema visivo unico, è semplicemente sublime. La pixel art è fuori scala. Gli scenari, sebbene costruiti con pochi elementi, sono valorizzati da un uso sapiente della luce, da inquadrature dinamiche e da zoom che enfatizzano la tensione. Il mondo biomeccanico in cui si muove il protagonista è vivo, disturbante, coerente. Anche il comparto sonoro gioca un ruolo fondamentale: le musiche sono rare ma intense, e lasciano spesso spazio ai suoni ambientali (sibili metallici, detonazioni, vibrazioni) che fanno da colonna sonora a questo universo alienante.

Il motore fisico, estremamente funzionale, riveste un ruolo primario nell’avventura: ogni oggetto ha massa, peso e reazione. Spostare piattaforme, schivare trappole, sfruttare lo swap: ogni azione ha una risposta tangibile. E quando si sbloccano le abilità avanzate, come il rallentamento del tempo o l’inversione della gravità, l’esperienza si fa ancora più ricca e imprevedibile. Cavi svolazzanti, traiettorie deviate dei missili, laser, gigantesche sfere che alterano la gravità, piattaforme: si può interagire e far interagire quasi tutti gli elementi a schermo, e devo dire che alcune soluzioni sono davvero sorprendenti. In aggiunta alla modalità Storia, viene introdotta anche una modalità online asincrona, che consente di affrontare sfide a tempo contro i “fantasmi” di altri giocatori. Si tratta di un’aggiunta preziosa, capace di mettere in luce il potenziale competitivo del titolo e di aggiungere un ulteriore livello di sfida, senza però imporre nulla a chi desidera semplicemente godersi l’avventura principale.

Tornando al paradosso accennato in precedenza, i livelli si dividono in tre segmenti ben distinti, ma ciò che sorprende e in parte delude, è l’assenza di una progressione graduale nella difficoltà. Per lunghi tratti l’esperienza si rivela fin troppo accomodante: si muore spesso, sì, ma più per spirito d’esplorazione o per semplice curiosità, come accade toccando liquidi o superfici sconosciute, che per una reale complessità delle sfide proposte. Lo stesso vale per gli enigmi ambientali, che raramente costringono il giocatore a una riflessione profonda. Sono perlopiù intuitivi, lineari, e solo in pochi casi, piacevoli eccezioni, riescono ad accendere quella scintilla di ingegno che il genere, storicamente, è solito evocare.

Eppure, quasi come un sussurro tardivo, l’ultimo terzo cambia marcia. Le prove diventano più elaborate, la commistione tra i poteri si fa finalmente centrale, e le meccaniche ambientali si arricchiscono di nuove sfumature. È in questo momento che il gioco mostra il suo volto più brillante, rivelandosi per ciò che avrebbe potuto essere lungo l’intero percorso: un puzzle-platform raffinato, capace di stimolare tanto il pensiero quanto i riflessi. Questa svolta, però, giunge forse troppo tardi. Il sapore che lascia in bocca è dolce, sì, ma anche leggermente amaro, perché ciò che accade negli ultimi quattro livelli è semplicemente splendido e avrei voluto vederlo prima, in quantità maggiore.

Comprendo, certo, che l’introduzione di meccaniche complesse, come la manipolazione gravitazionale, richieda una costruzione graduale e un level design adatto, ma resta la sensazione di un potenziale parzialmente inespresso. Un’opportunità colta solo in parte, che lascia intravedere l’eccellenza e, proprio per questo, rende più evidente ciò che manca.

 


Non fraintendetemi: siamo davanti a ben più di un ottimo platform. Brilla di una luce propria, inconfondibile, e rappresenta un’esperienza dal carattere tanto peculiare quanto affascinante, un viaggio che merita di essere intrapreso senza esitazioni, anche solo per l’onestissimo prezzo con cui viene proposto. È un laboratorio di idee, un esperimento sorprendentemente riuscito, un’opera che non teme di farvi precipitare nel vuoto—purché troviate la forza, e la voglia, di rialzarvi. In un panorama ludico sempre più dominato da repliche prudenti e soluzioni collaudate, questo titolo è una boccata d’aria fresca. Puro slancio, pura scoperta, puro istinto. Che siate appassionati del genere o semplicemente alla ricerca di qualcosa di diverso, di autentico, di intelligente, Bionic Bay merita la vostra attenzione. Perché sotto la sua apparente sobrietà estetica pulsa un cuore forte, indomito. E se inizialmente non riuscirete a percepirne il battito, non desistete: forse non è lui a dover cambiare, ma il vostro ritmo ad adattarsi. Con me ha funzionato, anche se ci è voluto tempo per iniziare a capirci davvero.


 

V MENSILE
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NeoGeo Collector’s Bible Special Preview
Provengo da un’epoca particolare, in cui le edicole vendevano videogames e le sale giochi erano giungle urbane abitate da creature stravaganti. Si sognava per mesi (o anni) su una singola immagine vista su rivista, si attraversavano quartieri interi per noleggiare un gioco sperando che fosse ancora lì, pronto ad accoglierci per un’avventura irripetibile. Il marketing si faceva per strada, la console war si combatteva faccia a faccia, e il venditore era una creatura leggendaria. Un mondo folle e ingenuo, forse, ma proprio per questo indimenticabile.