In molti, come viene ben ricordato nell’intenso documentario di due ore incluso nei contenuti bonus, ritenevano che The Last of Us non necessitasse di un seguito, che avesse già espresso, con struggente compiutezza, tutto ciò che aveva da dire. Tuttavia, già dal trailer d’annuncio del secondo capitolo, il dubbio che vi fosse ancora qualcosa di significativo da raccontare iniziò ad affiorare. In quel primo frammento visivo, una Ellie adolescente, madida di sangue e unica sopravvissuta a un massacro, siede su un letto e accenna malinconicamente un brano alla chitarra. Joel entra nella stanza, le si avvicina e le chiede se stia bene. La risposta di Ellie è una promessa gelida: “Li ucciderò tutti“. Quel trailer non era soltanto un messaggio per il pubblico, ma un promemoria per il medesimo team di sviluppo. Una dichiarazione d’intenti, concepita mentre lavoravano ad Uncharted 4, che rappresentava una rara eccezione alla regola aurea di Naughty Dog, ovvero lavorare a un solo progetto per volta. Fu un’anticipazione voluta, quasi necessaria, per imprimere nella memoria collettiva la direzione che si desiderava intraprendere. Non è un caso che il titolo sia Parte II. Una distinzione fondamentale che sottolinea come si tratti della prosecuzione organica e indissolubile di una storia unica, non di un semplice seguito nato per ragioni commerciali, sebbene il primo episodio fosse già ampiamente consacrato al successo.

Parte II non è pensato per essere fruito da solo. Iniziare il viaggio narrativo da questo secondo capitolo significherebbe compromettere l’intera esperienza: legami, dinamiche affettive, reazioni e psicologie dei personaggi vengono dati per acquisiti, perché profondamente radicati nel primo atto della vicenda. Ed è giusto così. Le tematiche esplorate trascendono di gran lunga ciò che tradizionalmente viene affrontato nel medium videoludico. Il gioco si immerge con audacia nel ciclo perpetuo della violenza, rivelando non solo la brutalità delle azioni, ma anche l’illusorietà della vendetta e il modo in cui essa consuma chi la persegue. La riflessione sull’identità, sia essa personale che sessuale, viene trattata con una sensibilità che sonda il tormento della crescita in un mondo ormai spezzato. Il gioco esplora con crudezza e sincerità temi come il trauma, il lutto, l’empatia e l’inesistenza di una verità assoluta, sostituendo quest’ultima con un caleidoscopio di prospettive divergenti che ci mostrano una realtà complessa, fatta di molteplici sfumature.
Queste riflessioni non si limitano alla superficie, ma le rendono ossessionanti, ripetute e talvolta devastanti. Ogni azione compiuta sembra avere un contrappeso emotivo, come se il gioco ci volesse costringere a confrontarci con ogni decisione, ogni ferita, ogni scelta. Tanto è vero che io ed altre persone a me vicine siamo arrivati ad odiare quello che abbiamo fatto nel gioco. Questo atteggiamento ossessivo verso la ricerca della verità, della giustizia e della redenzione è il motore che alimenta una narrativa che non lascia spazio alla neutralità o al compromesso.
Tutto ciò è in perfetta armonia con altre opere che esplorano prospettive multiple, come Nier Automata, Spec Ops: The Line, Suikoden 3, Fire Emblem Fates e Braid. Come in questi titoli, l’esperienza di gioco non è mai lineare o facilmente definibile, ma è invece un viaggio tra le pieghe di un mondo in cui le certezze crollano e ogni personaggio, ogni punto di vista, è un tassello di una verità sempre incompleta. Questi sono temi che, sin dai tempi di Pong, sono stati trattati con il contagocce nel medium videoludico, e raramente con tanta intensità, onestà e maturità. Si tratta di un progetto ambizioso, in cui tutto quello che abbiamo amato nel primo viene preso, modificato e stravolto, talvolta ribaltato. Serve coraggio per fare quello che è stato fatto e forse un briciolo di follia per lasciare una strada battuta e camminare su un terreno impervio, verso una destinazione sconosciuta.

Take on me
L’unica certezza maturata dai Naughty Dog dopo il primo capitolo era che l’anello debole della loro produzione risiedesse nel gameplay, l’elemento meno riuscito dell’opera. Non a caso, il titolo venne definito dai detrattori come un capolavoro narrativo, non senza una velata punta di ironia e polemica. Ci sono state soltanto tre occasioni nella mia “carriera” di videogiocatore in cui, davanti allo schermo, ho lasciato il controller senza sapere come reagire a ciò che stavo vedendo. La prima fu quando Rick Taylor riuscì finalmente a raggiungere la sua amata Jennifer, al termine del quinto stage di Splatterhouse; la seconda, la straziante scelta finale del primo Life is Strange. La terza, e senza dubbio la più dolorosa, giunse con The Last of Us Part II: il mio avatar, con i piedi immersi nel mare della California, si stagliava minaccioso davanti al suo avversario armato di un pugnale, intenzionato a chiudere la questione una volta per tutte. Non credo che chi ha vissuto quell’esperienza possa avere difficoltà a riconoscere la scena.
È particolarmente interessante osservare come i due trailer pubblicati abbiano generato un acceso dibattito, toccando numerosi temi rappresentati nella narrazione, tra cui l’efferatezza a schermo e le ragioni sottese a una tale intensità espressiva. Non sono mancate, purtroppo, anche critiche meno centrate, come quelle che mettono in discussione la rappresentazione femminile, insinuando un presunto sessismo a fronte di alcune sequenze violente nei confronti delle donne. Un’accusa che appare quantomeno paradossale, considerando che le protagoniste dell’opera sono due figure femminili forti, indipendenti e profondamente determinate. Una polemica sterile, dunque, che sfiora il ridicolo. La tendenza a ridurre ogni riflessione a mere dicotomie di giusto e sbagliato, bianco e nero, è indice di una visione semplicistica e immatura della realtà. Il mondo non è fatto di categorie nette, ma di infinite sfumature: comprenderle richiede profondità, non superficialità.

Polemiche a parte, il livello di violenza presente in The Last of Us Parte II risulta realmente opprimente, non tanto perché manchino titoli altrettanto brutali (Manhunt, Outlast, Spec Ops: The Line, Gears of War, Dead Rising), quanto per la maniera con cui essa viene rappresentata: cruda, viscerale, dolorosamente realistica. La sua brutalità non nasce dal gusto per lo shock, ma dal voler far sentire al giocatore il peso morale e umano di ogni azione, riuscendoci perfettamente. Se si volesse ricorrere a un paragone cinematografico, potremmo dire che la differenza è quella che intercorre tra Kill Bill e Salvate il soldato Ryan, con il primo con “gore” decisamente maggiore del secondo ma con il film con Tom Hanks infinitamente più disturbante da guardare a causa del realismo della descrizione. In ogni uccisione, il giocatore percepisce un peso emotivo tangibile. Ogni personaggio non giocante è dotato di un nome, di una storia, di una presenza che va oltre la funzione meccanica. Sopprimere una vita, in questo contesto, non è mai un gesto vuoto: è un atto che si porta dietro un’eco di pianti, urla strazianti, disperazione.
Eliminare una guardia accompagnata da un cane, ad esempio, potrà provocare il lamento angoscioso dell’animale per la perdita del padrone, o generare una reazione di profondo sconforto in un compagno che, ritrovandone il corpo, scoppierà in lacrime. Si aggiunge così un ulteriore strato di dolore e umanità all’esperienza ludica. Ogni individuo viene chiamato per nome dai suoi alleati: non è un semplice fantoccio posto lì per ostacolare il giocatore, ma una presenza che partecipa pienamente alla dimensione emotiva del racconto. È curioso osservare come nelle due parti di The Last of Us l’uso della violenza sia profondamente diverso tra i vari personaggi controllati: Joel affronta la lotta in modo pragmatico, considerandola un mezzo e non un fine, mentre Ellie sembra esserne trascinata da un impulso emotivo, un bisogno viscerale che sfocia infine nella brutalità. Il tutto è rappresentato su schermo in modo chiaro ed evidente. Spegnere una vita nei panni di Ellie risulta molto più faticoso che farlo con Joel, proprio per la sofferenza, palpabile, che emerge dietro ogni gesto.

Blackened
Quello di Ellie non è soltanto un viaggio narrativo, ma una discesa emotiva capace di svuotare l’animo del giocatore, lasciandolo con interrogativi profondi e un senso di inquietudine che permane ben oltre la fine del gioco. Riuscire a portare a termine TLOU2 non fu comunque impresa facile per i Naughty Dog; il gioco venne rinviato a data da destinarsi con un comunicato ufficiale a causa della pandemia di Covid-19. Fu in quel frangente che iniziarono a circolare in rete dei filmati colmi di spoiler, capaci di provocare l’ira dei fan: non solo sequenze di gameplay, ma anche eventi narrativi centrali, la cui presentazione decontestualizzata generò un’ondata di odio, insulti e persino minacce di morte rivolte ai membri del team di sviluppo.
Ironia della sorte, emerse in seguito che l’autore della fuga di contenuti non era un ex dipendente scontento né un hacker professionista, ma un giovane ventenne, fan accanito del gioco, che viveva ancora con i genitori. Il suo intento, tanto paradossale quanto ingenuo, era quello di forzare la mano affinché il titolo venisse pubblicato il prima possibile.
È curioso come proprio l’interruzione di un ciclo, il rifiuto della vendetta come unica risposta al dolore, rappresenti il nucleo tematico dell’opera stessa. Alla fine, la decisione di non perseguire legalmente l’autore, di lasciar cadere la questione nel silenzio, si è rivelata una forma di coerenza narrativa: una scelta in linea con il messaggio più profondo che The Last of Us Parte II intendeva trasmettere al mondo. Un gesto di rinuncia, ma anche di consapevolezza.

Al momento, il destino della serie è avvolto nell’incertezza. Neil Druckmann, co-creatore della saga, ha recentemente affermato: “Non scommetterei sul fatto che ci sarà un altro capitolo. Questo potrebbe essere tutto.” Parole che suonano come un addio, o quantomeno una sospensione, e che lasciano intendere l’assenza di piani concreti per un ulteriore capitolo.
Eppure, in passato, lo stesso Druckmann aveva lasciato intravedere la possibilità di un seguito, accennando all’esistenza di una traccia narrativa già abbozzata. Nel documentario Grounded II, lui stesso dichiara: “Ho pensato a lungo a una nuova idea e per anni non sono riuscito a trovarla. Ma di recente la situazione è cambiata. Non ho una storia, ma un concetto che per me è emozionante come quelli del primo e del secondo gioco, autonomo ma che al contempo collega tutti e tre i giochi. Quindi mi sento di dire che forse è rimasto ancora un capitolo da raccontare.”
Questa apparente ambivalenza potrebbe riflettere un profondo rispetto per l’eredità della serie e il desiderio di non proseguirla se non in presenza di una storia davvero necessaria.
Ad oggi, non vi è alcuna conferma ufficiale sullo sviluppo di un terzo episodio. I fan dovranno dunque attendere, forse a lungo, prima che Naughty Dog o Sony decidano se riaprire – o meno – le porte di questo mondo segnato dalla sopravvivenza e dal dolore.
A conclusione di quanto esposto, desidero ribadire ciò che ho già sottolineato nel corso dell’articolo. Questa è la riproposizione PC di un racconto straordinario nell’ambito delle arti visive contemporanee, una narrazione che vanta davvero pochi rivali capaci di imprimere un’impronta così profonda nell’animo di un giocatore. Solo saghe leggendarie come The Witcher e Red Dead Redemption possono camminare al suo fianco. Con questa seconda iterazione, però, The Last of Us si eleva ulteriormente, grazie a un gameplay solidissimo e incredibilmente intuitivo, che lo colloca tra i vertici del genere delle avventure in terza persona, sia dal punto di vista tecnico che ludico. Un titolo imprescindibile, che mi sento di definire un’esperienza da provare senza alcuna riserva, sapendo però che farà male, molto male.
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