Echoes of the End Recensione: i morti sono pessimi conquistatori

Echoes of the End

L’intento delle grandi produzioni tripla A è sempre stato quello di monopolizzare l’attenzione del pubblico con grafiche mozzafiato, colonne sonore magistrali, mondi aperti sconfinati e tagli particolarmente cinematografici grazie ai budget faraonici su cui possono contare. Poi, che la porzione ludica sia più o meno consistente acquisisce purtroppo un’importanza secondaria. A volte però, gli studi più piccoli riescono ad alzare la testa tentando di compensare la relativa carenza di risorse con qualche iniziativa coraggiosa, magari non proprio impeccabile ma comunque degna di attenzione: è il caso dei ragazzi islandesi di Myrkur Games e del loro Echoes of the End, un’avventura dinamica in terza persona che rientra a pieno titolo nella categoria colloquiale di eurojank, espressione gergale nata nella comunità videoludica per identificare una particolare categoria di titoli, solitamente sviluppati da studi europei con budget limitati. L’etimologia è un portmanteau tra “European” e “jank”, un termine slang che indica qualcosa di scarsa qualità, malfunzionante o grossolano. Malgrado la definizione possa sembrare dispregiativa, racchiude in sé un’ambivalenza che è diventata un vero e proprio tratto distintivo: i giochi definiti “eurojank” sono infatti caratterizzati da eccellenti propositi e da visioni d’insieme creative e singolari, ma vengono frenati da un quantitativo più o meno ragguardevole di problemi di natura tecnica come bug, animazioni legnose, interfacce utente poco intuitive o un comparto audiovisivo zoppicante. Tali difetti, lungi dal renderli automaticamente pessimi, ne sottolineano la natura di prodotti realizzati con passione ma senza le risorse dei colossi del settore. Col tempo, il termine ha perso la sua connotazione negativa più forte, assumendo quasi il ruolo di etichetta di riconoscimento per denotare il fascino esercitato da ciò che è modesto, capace di coinvolgere con un’onestà e un’originalità che si contrappongono alla perfezione patinata delle produzioni tripla A.

Echoes of the End richiama l’estetica e la progressione di titoli celebri come God of War e Hellblade, ma cela in realtà un’anima più riflessiva e complessa, che preferisce l’ingegno alla pura forza bruta. Annunciato pochi mesi prima del lancio ufficiale, avvenuto lo scorso 12 agosto, le prime immagini in movimento del titolo hanno calamitato l’attenzione di critica e pubblico per il comparto artistico al tempo stesso conosciuto e familiare, nonché il desiderio di costruire un universo narrativo originale. Potrei definirlo un monolite solitario, un esperimento narrativo interattivo che, pur non potendo competere con i pesi massimi del settore sul piano della grandeur tecnica, punta a lasciare un segno attraverso la sua identità distintiva. La stessa esistenza di un prodotto simile è un concreto memorandum che anche le storie più intime e le meccaniche più insolite possono trovare un proprio palcoscenico, a patto di avere qualcosa di significativo da raccontare.

Echoes of the End
I paesaggi nordici sono un autentico tripudio artistico

Echoes of the End: l’ho persa molto tempo fa

L’ossatura narrativa del gioco si poggia su un dualismo affascinante e ricco di potenziale. Seguiamo le vicende di Ryn, una “vestigia”, un’individuo cioè dotato di straordinari poteri di manipolazione dell’energia, e di Abram, uno studioso la cui forza risiede nella conoscenza e nell’intelletto. La loro missione ha un obiettivo chiaro e disperato: salvare Cor, il fratello di Ryn, che è stato rapito. La premessa poggia su basi molto solide, ma l’avvio della trama può risultare spiazzante. I dialoghi sembrano dare per scontate nozioni e contesti che il giocatore non conosce, costringendolo a navigare in un mare di informazioni non decifrabili, quasi come se avessimo iniziato a leggere un libro da metà saltando i capitoli iniziali. Le poche informazioni fornite attraverso diari e documenti sparsi nel mondo di gioco non fanno molto per colmare queste lacune iniziali. È una fase piuttosto confusa che, tuttavia, si rivela presto una trappola tesa con scaltrezza dagli sviluppatori perché, man mano che l’avventura prosegue, i nodi più intricati iniziano a dipanarsi in maniera più organica e comprensibile, i personaggi acquisiscono maggiore profondità, le loro motivazioni diventano più chiare e il legame tra Ryn e Abram si evolve, passando da una collaborazione di necessità a un rapporto di fiducia profonda. È proprio in questa seconda metà del gioco che la narrazione raggiunge il suo apice, con momenti emotivi e rivelazioni che riescono a dare un senso a tutto ciò che era stato celato inizialmente. Davanti ai nostri occhi prende forma un’odissea per salvare non solo un fratello ma la stessa Ryn, che scopre la vera natura dei suoi poteri e del ruolo che deve necessariamente svolgere in un mondo ostile. È una storia che premia la pazienza, regalando una soddisfacente ricompensa emotiva a chi è disposto a superare l’iniziale smarrimento.

Sul fronte delle meccaniche, Echoes of the End è un ibrido che fonde combattimento, esplorazione e, soprattutto, risoluzione di enigmi. Mentre il marketing lo ha sempre posizionato nel solco dell’avventura d’azione, è innegabile che l’elemento dominante siano i rompicapo. Gli scontri, seppur presenti e integrati con il giusto ritmo, sembrano quasi una parentesi tra un arcano e l’altro. Il sistema di combattimento si basa sulla sinergia tra Ryn, che utilizza la lama e l’energia che è in grado di sprigionare per attacchi e potenziamenti, e Abram, che la supporta in modo tattico. Il dinamismo delle lotte è apprezzabile, e il potere della protagonista che le consente di teletrasportarsi e aggirare i nemici aggiunge un tocco di creatività che favorisce l’inventiva. Disgraziatamente, il rovescio della medaglia è rappresentato da un pervicace senso di incompiutezza: i comandi, in particolare quelli legati alle manovre difensive, non sempre rispondono con la prontezza desiderata, portando a momenti di frustrazione in cui veniamo travolti dai colpi malgrado l’esecuzione di parate e schivate sia stata puntuale. La varietà dei nemici è piuttosto limitata, con un numero ridotto di tipologie che vengono semplicemente riciclate nel corso dell’avventura, riducendo l’impatto viscerale delle battaglie a una banale ripetizione delle medesime mosse. Lo stesso si può dire del sistema di progressione: sebbene esista un albero delle abilità per migliorare le capacità dei personaggi, quest’ultimo elargisce un incremento marginale delle prestazioni, rendendo quasi superfluo lo sforzo di accumulare esperienza e punti. La sensazione è che si tratti di strutture ludiche implementate più per dovere che per effettiva utilità, e ciò si traduce in una notevole mitigazione dell’importanza che invece dovrebbero possedere.

La storia si prende i suoi tempi, ma ripaga l’attesa con un racconto pregno di significato

È andata in modo sorprendentemente liscio, direi

Ma torniamo al genuino punto di forza del gioco, l’aspetto che più di ogni altro lo distingue dalla moltitudine di cloni, e che risiede nella magistrale progettazione degli enigmi: non mi riferisco ai classici interruttori o a bislacchi indovinelli secondari, ma a una serie di trovate intrinsecamente legate alla progressione dell’avventura, che richiedono al giocatore di pensare in modo critico e di combinare le abilità dei due protagonisti in modi inconsueti. Le proporzioni tra mistero e ricompensa sono in perfetto equilibrio, dove la sfida è sempre stimolante ma mai eccessivamente punitiva. Non mi è mai capitato di sentirmi bloccato troppo a lungo, e ogni difficoltà superata trasmette profonda soddisfazione. I rompicapo sono ingegnosi e sovente richiedono una combinazione di tempismo, osservazione e il giusto impiego dei poteri di Ryn per manipolare l’ambiente circostante: che si tratti di deviare un raggio di energia per aprire una porta o di sincronizzare i movimenti dei due coprotagonisti per superare una trappola, ciascun ostacolo lascia trapelare gli sforzi profusi per progettarlo. Questo forte accento sugli enigmi rende il gioco meno frenetico e più meditativo, un’esperienza ponderata in cui veniamo chiamati a esplorare, riflettere e trovare la soluzione corretta immersi in un’atmosfera di relativa calma. È palese quanto gli autori abbiano convogliato passione ed energie a questa componente, e i risultati si vedono, per quanto vadano ad avvalorare l’ipotesi che l’azione e gli scontri siano stati inseriti quasi per necessità, magari per aderire alle convenzioni del genere, ma che il vero intento fosse la creazione di una complessa serie di rompicapi celati sotto il mantello di un’epopea norrena.

Il comparto tecnico e artistico del gioco offre un contrasto che stride tra alti e bassi. Dal punto di vista estetico, non ho remore a definirlo un autentico trionfo: le ambientazioni, ispirate ai paesaggi della tradizione scandinava e islandese, sono a dir poco mozzafiato. I fiordi, le montagne imponenti, i ghiacciai e le architetture maestose creano scorci e atmosfere incredibilmente suggestivi. Le texture sono dettagliate, l’illuminazione oltremodo curata e gli scenari sono ricchi di elementi che contribuiscono a erigere un mondo credibile e affascinante. Una simile considerazione per i dettagli si estende anche agli interni, che sono altrettanto elaborati e visivamente appaganti. È uno di quei rari titoli in cui si ha voglia di fermarsi semplicemente per ammirare il panorama e scattare qualche istantanea. Cotanto splendore visivo, però, è minato da una serie di problematiche tecniche che ne intaccano la godibilità complessiva. L’ottimizzazione non sembra essere delle migliori, con evidenti cali di frame rate e fenomeni di stuttering, in particolar modo durante i momenti più concitati o il caricamento di nuove aree. Anche in questo caso si tratta di imperfezioni non compromettenti, ma abbastanza regolari da spezzare la sospensione dell’incredulità e ricordare al giocatore che sta giocando un titolo che avrebbe beneficiato di qualche accorgimento supplementare. Il forte dubbio che ha permeato il mio intero viaggio è quello di essermi scontrato con le conseguenze di una calibrazione non proprio ottimale delle risorse messe a disposizione da Unreal Engine 5, forse a causa delle tempistiche oppure della relativa inesperienza, e le attinenti ripercussioni sulla scorrevolezza e sulla stabilità generali.

Echoes of the End
Il combattimento sinergico è stimolante, ma viene frenato da imprecisioni e ripetitività

Echoes of the End: fossi in te, aspetterei a festeggiare

Se la grafica ciondola tra momenti di mirabile splendore e qualche incertezza congenita, il comparto audio si posiziona in modo inequivocabile sul piatto negativo della bilancia. La colonna sonora, pur non essendo particolarmente memorabile, svolge il suo ruolo in modo dignitoso, accompagnando l’azione e le fasi esplorative, ma è il doppiaggio a rappresentare il vero tallone d’Achille di Echoes of the End. Per quanto i dialoghi in sé siano ben scritti, la recitazione vocale manca di emozione e di pathos, con gli interpreti che recitano le loro battute in modo piatto e monotono, come se stessero leggendo un copione per la prima volta. Il problema viene particolarmente enfatizzato nel corso delle sequenze più importanti della storia, dove la mancanza di coinvolgimento emotivo da parte dei doppiatori finisce per annullare l’impatto di momenti che dovrebbero essere toccanti o drammatici: la disperazione di Ryn o la preoccupazione di Abram non si riescono a percepire, pertanto l’intera esperienza narrativa ne risente e ciò che avrebbe potuto essere un’ordalia emotivamente profonda si riduce a un racconto con personaggi che non sembrano capaci di soffrire o di gioire. Anche gli effetti sonori non brillano per pulizia e intensità. Molti rumori ambientali o di battaglia risultano deboli, poco incisivi o, in alcuni casi, del tutto assenti, fiaccando un’esperienza audio che non arriva ai sontuosi livelli della pregevolezza visiva. È un peccato che un’esperienza così curata sotto il profilo estetico non abbia ricevuto la stessa attenzione per ciò che riguarda la porzione acustica, un elemento decisamente trascurato che ne limita il potenziale espressivo.

A conti fatti, e al di là dei pro e dei contro più evidenti, il gioco non tenta di nascondere fin da subito la sua natura di prodotto di nicchia, qualcosa che va oltre le classificazioni più semplici. Con una durata di circa 14-15 ore, la sua lunghezza è ideale per una storia lineare, senza fronzoli o attività secondarie ridondanti che spesso gonfiano artificialmente le avventure più recenti. Ma tale linearità è un’arma a doppio taglio: se da un lato offre un’esperienza più focalizzata e cinematografica, dall’altro circoscrive notevolmente la libertà del giocatore, incanalandolo in un percorso prestabilito dal quale non può allontanarsi più di tanto. Si tratta di una scelta audace in un’epoca dominata dai mondi aperti, eppure per molti rappresenta, a ragion veduta, un punto di forza: una storia che rispetta il tempo del giocatore, senza pretendere decine e decine di ore per essere completata, e che sfoggia una narrazione concisa che sa quando finire non è un pregio da poco, alla quale si aggiunge un’identità artistica forte e riconoscibile che diviene sempre più marcata con il prosieguo del racconto e aiuta a distinguerlo da altri titoli del genere. Pur con tutti i suoi difetti, dai problemi tecnici minori a quelli più evidenti nel comparto sonoro, il titolo dimostra di avere un intento salda e cristallina, quella di raccontare una storia attraverso la combinazione di enigmi, esplorazione e una spolverata di azione, che ribadisco non essere il fulcro centrale a scapito di ciò che vorrebbero farci intendere i trailer. Non è un gioco perfetto, ma le sue imperfezioni sono parte del fascino che possiede e della schiettezza in termini di prodotto che non nasconde le sue origini più umili. Pur non essendo un capolavoro, insomma, potrebbe guadagnarsi a buon diritto un posto nella libreria di chi cerca qualcosa di diverso dai soliti blockbuster.


Echoes of the End è un’avventura con grandi ambizioni e un’anima da puzzle game, la cui portata viene a tratti nascosta dalle evidenti lacune sotto il profilo tecnico. Tralasciando i problemi prestazionali e un doppiaggio privo di mordente, l’eccezionale progettazione degli enigmi, il comparto visivo mozzafiato e le atmosfere evocative lo traducono in un’esperienza complessivamente positiva. È una scelta eccellente per chi predilige la riflessione all’azione frenetica, e non si è fatto trarre in inganno dai video promozionali che volevano spacciarlo per l’ennesimo action (poco) RPG in terza persona uguale a mille altri.


 

Gioca da quando ha messo per la prima volta gli occhi sul suo Commodore 64 e da allora fa poco altro, nonostante porti avanti un lavoro di facciata per procurarsi il cibo. Per lui i giochi si dividono in due grandi categorie: belli e brutti. Prima che iniziasse a sfogliare le riviste del settore erano tutti belli, in realtà, poi gli è stato insegnato che non poteva divertirsi anche con certe ciofeche invereconde. A quel punto, ha smesso di leggere.