Skate Story Recensione: il cristallo e l’asfalto, la visione estrema di un’impalcatura di vetro

L’universo di Skate Story nasce dalla visione eccentrica e profondamente personale di Sam Eng, uno sviluppatore indipendente che ha saputo fondere l’estetica lo-fi con una narrazione onirica e brutale. Non ha creato un semplice simulatore sportivo, ma ha dato vita a un progetto che riflette un’ossessione viscerale per il movimento e la fragilità, costruendo un mondo che sembra scaturire direttamente da un sogno febbrile influenzato dalla cultura skate e dall’arte digitale d’avanguardia.

La premessa di gioco è tanto assurda quanto affascinante: il giocatore interpreta un demone fatto interamente di vetro e dolore, una creatura trasparente e precaria che abita le profondità di un mondo sotterraneo surreale e psichedelico. Il patto che mette in moto l’intera vicenda è di natura faustiana: il Diavolo ti consegna uno skateboard e ti promette la libertà, a patto che tu riesca a compiere un’impresa impossibile: raggiungere le numerose lune ed inghiottirle tutte.

skate story
Esteticamente, Skate Story è davvero unico

Skate story: bark at the moon

Questa missione non è solo una sfida fisica, ma un viaggio simbolico attraverso dieci capitoli di desolazione estetica, dove ogni caduta non rappresenta solo un errore tecnico, ma il rischio concreto di andare letteralmente in frantumi, sottolineando costantemente la precarietà di un protagonista che è, al tempo stesso, un atleta provetto e un oggetto di vetro sull’orlo della distruzione totale.

Sam Eng ha tradotto sapientemente questa essenza in un sistema di gioco che punisce l’imprecisione con una violenza quasi viscerale. In Skate Story, la fragilità non è solo un elemento narrativo di contorno, ma il nucleo pulsante del gameplay stesso. A differenza dei classici titoli di skateboarding, dove una caduta comporta una semplice animazione di recupero o una perdita di punteggio, qui il demone di vetro esplode in mille frammenti al minimo impatto non controllato con il terreno o contro gli ostacoli ambientali, enfatizzando  al massimo ogni singola caduta.

Questa scelta stilistica trasforma ogni trick e ogni semplice salto in un atto di estrema vulnerabilità: il controller restituisce un feedback aptico che enfatizza la sensatezza del materiale vitreo, rendendo ogni atterraggio un momento di ansia pura in cui la solidità è percepita come una condizione solo temporanea. È un equilibrio precario che riflette perfettamente il patto demoniaco alla base della trama: hai il potere di compiere evoluzioni incredibili e sfidare la gravità, ma sei costantemente a un millimetro dalla polverizzazione, una dinamica che eleva lo skateboard da sport a metafora della fragilità dell’essere.

Cercare di capire perché in molti siano innamorati di quest’opera, al di là delle inclinazioni personali, non è certo un’impresa difficile: ci troviamo di fronte a un’esperienza estetica e sensoriale capace di tenere il giocatore letteralmente incollato allo schermo fino alla conclusione del decimo e ultimo capitolo, a patto di lasciarsi catturare dal suo concept magnetico e dallo stile grafico peculiare.

Tuttavia, non è un titolo per tutti e io stesso mi annovero tra coloro che non sono riusciti ad apprezzarlo pienamente, pur riconoscendogli una cifra stilistica e una personalità fuori dal comune. Capita raramente di restare folgorati dall’idea portante di un videogioco a prescindere dalla sua effettiva esecuzione, ma è una sensazione che ho  provato in passato numerose volte.

Titoli come Loop Hero, che Sam Eng ammira a tal punto da omaggiarlo con un poster in-game o Sword of the Sea, che rappresenta forse il riferimento ludico più vicino per tipologia d’esperienza, sono due ottimi esempi. Anche SCHiM rientra in questo ideale parallelo, un progetto dall’idea geniale che però, proprio come Skate Story, è diventato la dimostrazione di come un concept brillante possa essere (parzialmente) vanificato da un gameplay non rifinito con la stessa cura maniacale dedicata all’estetica.

L’ultima fatica di Eng mi ha portato più volte a constatare come la sua dirompente visione artistica sia finita per diventare un elemento quasi totalizzante, capace di oscurare la cura necessaria ad altri pilastri dell’esperienza interattiva, lasciando la giocabilità in un piano tristemente secondario.

Per spiegare il più grande pregio ed al contempo il più grande limite di questa produzione, non posso che partire dall’inquadratura scelta. La telecamera non agisce come un semplice osservatore passivo, ma si comporta come un elemento coreografico fondamentale che emula lo stile sporco e ravvicinato dei classici video di skateboard girati in “fisheye”, traslandoli in una dimensione onirica e disturbante.

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Gli NPC sono decisamente particolari, qui dovremo aiutare un piccione a superare il blocco dello scrittore.

Hell bent for leather

Posizionata estremamente in basso, quasi a sfiorare l’asfalto infernale, la visuale enfatizza costantemente il senso di velocità e permette alla luce di rifrangersi in modo dinamico attraverso il corpo di vetro del protagonista. Questa scelta si traduce in una telecamera fortemente cinetica che vibra e sussulta seguendo ogni asperità del terreno, simulando la presenza di un operatore invisibile che insegue lo skater da vicino.

Quando il demone si frantuma, la telecamera reagisce con una fisicità sorprendente, rotolando insieme ai frammenti di cristallo. Tuttavia, questa inquadratura bassa e distorta, sebbene straordinariamente immersiva, contribuisce a rendere la percezione degli spazi alterata e di difficile lettura. Una scelta autoriale e deliberata, legittimata dalla scelta di impedire la modifica della telecamera nelle opzioni.

Questa rigidità serve a trasmettere l’oppressione degli Inferi, ma limita drasticamente la visibilità delle aree, trasformando la visuale in un ostacolo che eleva l’estetica a scapito della funzionalità. Il giocatore si ritrova spesso a sentirsi più uno spettatore passivo di una spettacolarizzazione visiva che un attore in pieno controllo del proprio percorso.

Questa collisione tra visione artistica e giocabilità si riflette anche nella struttura dei livelli, che si sviluppa attraverso un’alternanza quasi schizofrenica di ritmi e situazioni, frammentando l’esperienza in tre fasi distinte che sono molto lontane dalle esperienze tradizionali del genere. Skate Story è una fusione organica di skateboard, ritmo, esplorazione e narrazione surreale, tanto che la si potrebbe considerare per gran parte un’avventura in cui di tanto in tanto si fa uso della tavola, tanto che infatti è possibile metterla via e camminare a piedi.

La struttura è prevalentemente lineare e guidata, alternando spazi più aperti a sezioni di transizione senza mai configurarsi come un vero open world. In alcuni momenti, il gioco offre aree esplorative popolate da bizzarri NPC e quest da completare che permettono di sbloccare porzioni di mappa segrete celate nell’Underworld.

A queste fasi riflessive si contrappongono bruscamente sequenze puramente lineari: corse frenetiche lungo corridoi stretti e distorti che richiedono riflessi pronti per evitare la distruzione immediata. Il culmine è rappresentato dagli scontri con i boss, battaglie spettacolari che non si basano sul combattimento, ma sulla padronanza del movimento: per sconfiggerli bisogna utilizzare l’ambiente, eseguendo trick specifici o attraversando punti critici della loro geometria, trasformando la velocità nell’unica arma efficace contro queste divinità demoniache.

Le meccaniche di base non privilegiano il button-mashing o l’esibizione tecnica fine a sé stessa, ma si fondano sul tempismo e sulla ricerca del “flow”. La fluidità con cui il giocatore attraversa gli ambienti e concatena le acrobazie conta più della loro complessità tecnica. Una volta presa la mano col controller, il sistema risulta intuitivo, supportato da un’estetica low-poly surreale e da una palette cromatica volutamente limitata e scura, dove ogni livello è caratterizzato da un colore dominante che ne diventa il tema visivo.

L’impatto visivo non rappresenta un semplice contorno estetico, ma costituisce il linguaggio primario attraverso cui viene comunicata l’angoscia e la meraviglia di questo oltretomba, elevando il minimalismo lo-fi a una forma di espressionismo digitale dove ogni poligono sembra vibrare di una propria, inquieta vitalità.

Gli ambienti astratti e sospesi nel vuoto riescono a evocare dimensioni che oscillano tra la serenità onirica e il terrore di un incubo lucido, collocando l’azione in un non-luogo privo di riferimenti temporali certi, dove le architetture impossibili sembrano scaturire da una visione brutalista e distorta.

Skate Story
Ad inizio avventura avremo di che discutere con una statua di un filosofo.

Skate Story: heart of glass

La palette cromatica, volutamente limitata e dominata da neri profondi e grigi cemento, viene periodicamente squarciata da esplosioni di colori al neon che emergono con una forza espressiva dirompente, tanto che ogni livello risulta costruito attorno a un colore dominante (dal rosso viscerale al verde acido) assunto come vero e proprio tema psicologico dell’esperienza.

Emerge un contrasto materico affascinante tra il mondo circostante, che appare opaco, granuloso e pesante, e il protagonista che brilla di una trasparenza cristallina, rendendolo l’unico elemento di purezza in un universo degradato e fluttuante composto da cemento piangente. In definitiva, l’universo visivo del gioco si rivela un trionfo di identità autoriale che non cerca di compiacere l’occhio con la pulizia tecnica, ma di stordirlo con una bellezza grezza, caotica e profondamente malinconica.

Anche il comparto audio gioca un ruolo fondamentale: la colonna sonora originale firmata dai Blood Cultures e da John Fio offre suoni elettronici testurizzati e ritmiche evocative ispirate ai rumori urbani di New York, creando un tappeto sonoro atmosferico e pulsante che è essenziale per immergersi nel ritmo del gameplay ed è una delle note più liete e particolari dell’intera produzione.

Nonostante questi innegabili pregi, i limiti della produzione coinvolgono ogni altro  aspetto tecnico e narrativo. La trama, ad esempio, rappresenta senza dubbio uno degli elementi più divisivi: criptica, astratta e profondamente simbolica, rende spesso faticoso seguire un filo logico.

La scrittura di Sam Eng rifugge i canoni tradizionali, procedendo per frammenti poetici e sconnessi, dialoghi surreali che sollevano domande senza dare risposte. Questa scelta di privilegiare le “vibrazionisensoriali rispetto a una storia strutturata dà l’impressione di un’opera che mette lo stile sopra la sostanza, alimentata da dialoghi minimalisti con NPC bizzarri (come rane bariste o figure fatte di sacchi della spazzatura) che allontanano il giocatore dalla gravità della missione.

A ciò si aggiunge il rovescio della medaglia della ricercatezza visiva, la criticità della leggibilità dell’azione che va a vanificare l’l’ottima risposta dei comandi: l’estetica psichedelica e la saturazione cromatica, unite all’oscurità perenne, rendono talvolta impossibile distinguere la profondità di un salto o individuare piccoli ostacoli banali ma letali come un semplice gradino.

Anche la sovrapposizione di filtri (noise, crt, tra i tanti utilizzati) e distorsioni rende talvolta arduo distinguere il piano calpestabile dagli abissi circostanti, trasformando la sfida in una lotta contro la percezione stessa.  In un titolo che richiede precisione millimetrica, queste morti vengono percepite come ingiuste, trasformando la sfida in un esercizio di sopravvivenza visiva contro l’immagine stessa e generando frustrazione.

L’esperienza è comunque talmente frammentata da non risultare mai realmente punitiva ed il livello generale è ben più che abbordabile (anche grazie ad un generosissimo sistema di checkpoint), è Il costante trial and error e la sensazione che molti morti non siano frutto di errori del giocatore ad infastidire. Nel caso però che vi troviate in difficoltà sappate che iil gioco offre buone opzioni di personalizzazione in termini di difficoltà, permettendo di settare l’avventura secondo le proprie necessità.

È possibile intervenire su parametri semplici ma efficaci, come l’aumento dei danni inflitti dalle combo, rendendo gli scontri più agevoli, o la regolazione della resistenza dello Skater di Vetro. Questi strumenti di accessibilità mitigano in parte la frustrazione derivante dalle scelte registiche estreme, ma non cancellano la sensazione di un’opera che, nel tentativo di essere un’avventura artistica senza compromessi, finisce per inciampare proprio su quegli aspetti di giocabilità che l’avrebbero resa un capolavoro assoluto.

Un ulteriore limite che incide sulla profondità dell’esperienza risiede nella ripetitività del game loop e in una gestione della verticalità che appare sorprendentemente piatta per un titolo dedicato allo skateboard. Nonostante la varietà estetica la struttura ludica tende a riproporre ciclicamente lo stesso schema, dove il superamento di una serie di corridoi lineari sfocia in arene più ampie che però mancano di una reale stratificazione dei livelli.

In queste aree aperte, la libertà di movimento è spesso solo orizzontale: mancano quelle strutture complesse, quei dislivelli e quelle linee architettoniche che permetterebbero di sfruttare appieno la verticalità del parkour su tavola. Lo spazio esplorabile finisce per somigliare a una distesa bidimensionale di ostacoli sparsi, dove l’assenza di rampe collegate o di elementi che permettano di scalare l’ambiente riduce drasticamente le possibilità di espressione creativa del giocatore.

Questo appiattimento del level design, unito alla frequente reiterazione delle medesime sfide, rischia di trasformare il viaggio verso la Luna in una sequenza di azioni meccaniche che, alla lunga, affievoliscono l’entusiasmo iniziale per il concept originale, rendendo il peso della linearità più gravoso di quanto la superba direzione artistica riesca a mascherare.


In definitiva, Skate Story si configura come un pellegrinaggio spirituale e fisico verso la Luna incredibilmente affascinante, ma è un viaggio che richiede al passeggero di accettare una visione d’autore che non sempre mette la fruibilità al primo posto. È un’opera che vive di contrasti violenti: tra la fragilità del vetro e la durezza del cemento, tra una colonna sonora magnetica e una telecamera volutamente ostile. Sebbene la sua dirompente personalità lo renda un pezzo unico nel panorama indipendente, l’incapacità di bilanciare l’estetica estrema con una giocabilità fluida e stratificata ne frena l’ascesa. Sam Eng ha creato un sogno febbrile meraviglioso da guardare, ma che a volte si trasforma in un incubo di frustrazione meccanica per chi cerca, oltre allo stile, un sistema di gioco solido e profondo. È un’esperienza che va vissuta per la sua unicità, a patto di essere disposti a frantumarsi mille volte pur di vedere, per un solo istante, la luce rifrangersi correttamente sul proprio corpo di cristallo.


 

Provengo da un’epoca particolare, in cui le edicole vendevano videogames e le sale giochi erano giungle urbane abitate da creature stravaganti. Si sognava per mesi (o anni) su una singola immagine vista su rivista, si attraversavano quartieri interi per noleggiare un gioco sperando che fosse ancora lì, pronto ad accoglierci per un’avventura irripetibile. Il marketing si faceva per strada, la console war si combatteva faccia a faccia, e il venditore era una creatura leggendaria. Un mondo folle e ingenuo, forse, ma proprio per questo indimenticabile.