Call of Duty: Black Ops II: la recensione di VMAG

Ci siamo. Anche quest’anno, Call of Duty ritorna sui nostri schermi. Anche quest’anno, le occhiate indignate del giocatore d’essai, e gli sguardi assetati dei pro gamer, si incrociano verso quello che, volenti o nolenti, dobbiamo tutti riconoscere come uno dei fenomeni più rilevanti di questa generazione. Call of Duty è una serie che pone il giornalista di videogiochi di fronte a un grande dilemma. Call of Duty, per dirla all’americana, è il classico elefante rosa nella stanza.

Tutti lo vedono, troppo ingombrante per essere ignorato, ma c’è sempre qualcuno che cerca in qualche modo di ignorarlo o sminuirlo, con l’unica colpa di essere l’emblema del videogioco competitivo, culturalmente “basso” ed estremamente conservativo nel suo aderire ai canoni FPS. Ma lungi da noi fare la figura di coloro che vogliono rovinare il divertimento agli altri. Perché sì, Call of Duty è divertente, ha carattere, e finalmente anche Treyarch sembra aver ripreso molta della maestria di Infinity Ward. Più che mai in questo episodio, il risultato finale è difficilmente distinguibile da quello dello sviluppatore veterano nella serie e sembrano davvero lontani i tempi in cui questo divario era evidente a tutti.

Piuttosto, Black Ops II si è ormai ritagliato una nicchia a parte, sopra le righe persino se confrontata con la serie canonica, ma con un insolito gusto per la narrazione. Black Ops II è la fantasia di un sedicenne che diventa realtà, un mondo-parco giochi dove città simbolo della civiltà consumistica, come Los Angeles, vengono rase al suolo con i droni. Un mondo dove si combatte con elicotteri telecomandati e dove le dittature si instaurano attraverso YouTube e la retorica in stile “Movimento Occupy”.

Un sociologo si divertirebbe un mondo ad analizzare Black Ops II. Ma, incredibile a dirsi, la storia prende. E fa qualcosa di più: dà un senso alle nostre azioni. Potremmo discutere per ore sul valore di un espediente vecchio come il mondo, ovvero le ramificazioni narrative nei videogiochi. Ma sta di fatto che, per la prima volta, Call of Duty vi metterà di fronte a sfide e scelte morali in grado di influenzare la storia e il finale che otterrete.

Muovendosi su due piani temporali, i flashback negli anni ’70 e i livelli ambientati nel 2025 (ovvero la maggioranza) Black Ops II riesce a scrollarsi di dosso l’aura da “generico sparatutto a tinte marroni ambientato in Medio-Oriente”. Si potrebbe persino azzardare che il bivio è portatore di significato nella trama: come a dire, la scelta di un singolo uomo è in grado di influenzare le sorti di un’epoca intera. Senza leggerci troppo, basti dire che tali bivi hanno degli effetti significativi, come causare la morte di un personaggio e permettere l’accesso o meno a determinati eventi.

 Perché sì, Call of Duty è divertente, ha carattere, e finalmente anche Treyarch sembra aver ripreso molta della maestria di Infinity Ward

Se ci dilunghiamo sulla narrazione, non è per poco rispetto del gameplay, ma perché è proprio questo il focus adottato da Treyarch. La sceneggiatura del gioco permette di scoprire che cosa è successo a Mason, il protagonista del primo Black Ops, o di scavare nelle motivazioni del supercattivo Raul Menendez. Treyarch è riuscita a costruirsi una sua mitologia personale, con una qualità che ha poco da invidiare a quella di personaggi come Soap McTavish.

Il focus sulla narrazione non ha effetti solo sulle parti non interattive, ma soprattutto sul campo di battaglia stessa. È grazie alla narrazione cheTreyarch riesce a innovare il DNA spara e corri marchiato a fuoco nella serie. È un gioco dove c’è tanto da ascoltare, tanto a cui assistere, per avere un quadro completo di quello che sta succedendo. Ma l’effetto corridoio è scongiurato anche grazie ad un level design non lineare, che favorisce il giocatore che esplora, alla ricerca di vie alternative per fiancheggiare i nemici e coglierli di sorpresa.

Peccato soltanto che l’intelligenza artificiale non sia in grado di rispondere alla varietà di tattiche con cui può essere sconfitta, rendendo quasi obbligatoria la scelta di un livello di difficoltà più elevato per chiunque volesse cogliere il maggiore potenziale strategico possibile dalle missioni. Ma naturalmente, Call of Duty fa ancora una volta affidamento su momenti scriptati spettacolari, e su sequenze adrenaliniche in grado di restare a lungo impresse, come il volo su Los Angeles e le varie sequenze di inseguimento in auto.

A tutt’oggi, nessun’altra serie può contare su una maestria quanto meno paragonabile nel ricreare la sensazione di un’imminente apocalisse. Per quanto la tecnologia mostra già da tempo segni di invecchiamento, a livello di regia lo standard del gioco sembra essersi persino alzato. Ogni pregiudizio si infrange di fronte all’indiscutibile qualità di Black Ops II.

Per quanto fedele a se stesso, non perdendo neanche un po’ del suo gusto per l’esagerazione, questo non è il solito Call of Duty. Nel suo proporre una campagna single player dotata di una sua ragion d’essere, indipendente rispetto al multiplayer, la serie dimostra, se ce ne fosse bisogno, che c’è un motivo dietro quei milioni di copie vendute ogni anno.

Nota: Chi scrive ha deciso di concentrarsi sulla modalità single player dopo essersi accorto che, a differenza dei precedenti capitoli, richiedeva un’analisi più approfondita in virtù delle sue piccole ma significative innovazione.

Per una disamina puntuale del multiplayer, vi rimandiamo invece a una prova sul campo ora che il gioco è a disposizione di tutti, che VMAG pubblicherà proprio in questi giorni.

V MENSILE
Clicca sulla copertina per leggere
V007 Mensile