Captain Blood

Captain Blood Recensione: i (giochi) morti non mentono mai

Il vasto oceano dei videogiochi è pieno di storie che si raccontano di porto in porto, tra un bicchiere di rum e una partita a dadi. Storie di tesori dimenticati e navi fantasma, di progetti naufragati e di cimeli sepolti tra fondali insondabili. La leggenda di Captain Blood è una di queste. Concepito come una grande avventura, questo gioco è rimasto per anni disperso in un limbo di rinvii e fallimenti. Per quasi due decenni, il suo nome è stato solo un sussurro tra gli addetti ai lavori, finché non è riemerso come un antico galeone, riportato alla luce dopo un lungo naufragio. La sua rinascita lo rende un caso unico, un reperto di un’epoca videoludica passata che si materializza sulle nostre console, portando con sé il fascino grezzo e anacronistico di un’era in cui l’azione era più viscerale e meno levigata. È la riprova che, a volte, un progetto non muore mai del tutto, ma si trascina a riva, segnato dalla sua lunga e difficile traversata. In questo senso, l’impegno di studi come SeaWolf Studio e General Arcade nel preservare un pezzo di storia videoludica è ammirevole, anche se il prodotto finale presenta inevitabilmente le cicatrici del suo passato.

Captain Blood
Il peccato più grave di Captain Blood è quello di essere uscito con troppo ritardo

Captain Blood: dritto alla meta, e conquista la preda!

Il viaggio di Captain Blood si svolge in un’ambientazione che richiama il classico immaginario piratesco del XVII secolo nei Caraibi, ispirato all’omonima serie di romanzi scritti agli inizi del 900 da Rafael Sabatini, che peraltro nel 1988 già Exxos e Infogrames declinarono in una reinterpretazione fantascientifica che conservava il medesimo titolo dell’opera originale. Il protagonista, un nobile caduto in disgrazia e diventato corsaro, si lancia in una missione per salvare una donna rapita, ritrovandosi presto in un complotto che coinvolge la rivalità tra le potenze coloniali. La premessa è solida e intrigante, ma l’esecuzione della storia naufraga presto in un mare di cliché, confermando un’estetica da “B-movie” che permea l’intera esperienza. La trama, che vorrebbe essere un’epopea audace, finisce per sembrare poco più di un pretesto per i combattimenti, con un protagonista dai modi sfrontati che incarna il classico stereotipo dell’eroe d’azione. Sebbene il tono caricaturale abbia un potenziale comico, il gioco lo sfrutta solo molto di rado, preferendo una presentazione generalmente piatta. I personaggi mancano di spessore, i dialoghi sono spesso banali e le scene d’intermezzo sembrano assemblate in fretta, con una direzione artistica e un montaggio che lasciano parecchio a desiderare.

Dal punto di vista del gameplay, il titolo si posiziona saldamente nella scuola di pensiero dei picchiaduro dei primi anni 2000. Il combattimento, fulcro dell’esperienza, è un hack and slash brutale e diretto che ricorda in modo inequivocabile i capostipiti del genere come il primo God of War. Il protagonista ha a disposizione un repertorio di fendenti, parate e mosse finali in slow-motion, che, pur essendo visivamente gratificanti e violente, diventano presto ripetitive. La varietà di nemici è limitata, e il giocatore si ritrova a combattere ondate di avversari con le stesse identiche mosse. Sebbene i controlli siano semplici da imparare, l’intelligenza artificiale dei nemici è quasi inesistente, le collisioni sono inaffidabili e la telecamera si comporta spesso in modo imprevedibile, trasformando un’azione potenzialmente fluida in una lotta contro i controlli stessi. A complicare il tutto, il design dei livelli si basa su arene e percorsi lineari che amplificano la sensazione di monotonia.

Sembra davvero di trovarsi alle prese con uno dei primissimi titoli per Xbox 360

Perché hai bruciato il rum?

L’aspetto visivo di Captain Blood è forse la sua caratteristica più peculiare e degna di nota. Il gioco sfoggia con orgoglio uno stile grafico che sembra uscito direttamente dal periodo a cavallo tra la sesta e la settima generazione di console. Le ambientazioni, che spaziano da isole tropicali a città coloniali, hanno un’atmosfera evocativa, quasi teatrale, che compensa la scarsa densità di dettagli e le texture in bassa risoluzione. Sebbene non sia “bello” secondo gli standard odierni, è innegabile che questo look vecchio stile possieda un certo fascino nostalgico, come un vecchio film che si apprezza per le sue imperfezioni. I modelli dei personaggi, invece, sono più rigidi e grossolani, con animazioni facciali mediocri che tradiscono una tecnologia superata. Il risultato è un’estetica che, pur non essendo tecnicamente impressionante, funziona in qualche modo, trasmettendo un’energia da film di serie B che rende i difetti quasi affascinanti, come una reliquia di un’era videoludica più semplice e audace.

Di contro, il comparto audio è purtroppo uno dei punti più deboli del gioco. La colonna sonora, sebbene inizialmente energica e in linea con il tema piratesco, diventa presto ripetitiva, ma a peggiorare ulteriormente le cose è il missaggio audio, che sembra afflitto da problemi inspiegabili: i dialoghi dei personaggi vengono sussurrati in maniera quasi inascoltabile mentre gli effetti sonori e la musica li sovrastano, rendendo le sequenze narrative ancora più difficili da seguire. In molte scene, le voci sembrano dissolversi nel nulla, lasciando l’impressione che il gioco sia stato assemblato con pezzi di audio provenienti da fonti incompatibili. Il problema si manifesta in modo particolarmente evidente durante le battaglie navali, dove il rumore dei cannoni copre ogni altro suono. È un’esperienza frustrante che distrugge ogni residuo di immersività e mostra una mancanza congenita di cura nella produzione.

Captain Blood
Le influenze di God of War trasudano da ogni singola componente grafica

Captain Blood: bada alla barca

Oltre ai punti già menzionati, ci sono altri aspetti che meritano un’attenzione. Le suddette porzioni di combattimento navale, sebbene offrano un gradito cambio di ritmo rispetto alla monotonia del combattimento a terra, sono anch’esse monotone e superficiali, lasciando la sensazione di essere un’occasione sprecata. Ulteriore elemento che mina l’esperienza di gioco è la presenza di Quick Time Events (QTE), spesso mal implementati e punitivi. Un singolo errore in queste sequenze può significare essere rimandati all’ultimo checkpoint, che, in un sistema di salvataggio instabile e poco affidabile, può comportare la perdita di parecchi progressi. A corredare il tutto, spingendoci al di là del design di gioco, è la presenza di bug tecnici che possono compromettere l’esperienza, come il rischio di rimanere incastrati nello scenario o di perdere i progressi a causa di salvataggi automatici non funzionanti. Insomma, al netto di tutte le comprensibili difficoltà dovute al suo travagliato sviluppo, forse era il caso che quella del videogioco di Captain Blood continuasse ad essere soltanto una leggenda.


Captain Blood è un titolo anacronistico, un reperto del passato che si trascina nel presente con tutti i suoi difetti. Il suo fascino risiede unicamente nella sua goffa e nostalgica aderenza a un’epoca videoludica ormai tramontata. È un’esperienza che piacerà agli amanti del retrogaming e a coloro che provano una genuina curiosità per i progetti travagliati. Tuttavia, per la maggior parte dei giocatori, è difficile giustificare l’acquisto di un titolo che presenta così tanti problemi tecnici e di design. Il suo prezzo contenuto non riesce a nascondere il fatto che si tratta di un gioco profondamente imperfetto, un vascello che, pur avendo raggiunto la sua destinazione, è ormai una nave arrugginita che imbarca acqua da tutte le parti.


 

Gioca da quando ha messo per la prima volta gli occhi sul suo Commodore 64 e da allora fa poco altro, nonostante porti avanti un lavoro di facciata per procurarsi il cibo. Per lui i giochi si dividono in due grandi categorie: belli e brutti. Prima che iniziasse a sfogliare le riviste del settore erano tutti belli, in realtà, poi gli è stato insegnato che non poteva divertirsi anche con certe ciofeche invereconde. A quel punto, ha smesso di leggere.