Hirogami Recensione: un viaggio di carta e leggerezza

Hirogami nasce all’interno della Startup Challenge, un concorso interno di Bandai Namco Studios che ogni anno invita i dipendenti a proporre nuove idee. In questo contesto viene scelto un “hero”, un singolo sviluppatore incaricato di guidare e incarnare la visione creativa del progetto. L’idea vincente fu quella di un platform tridimensionale con un’estetica ispirata agli origami, semplice e accessibile ma con un’identità visiva forte.

Per approfondire l’argomento vi rimando all’intervista completa, il gioco venne affidato a un piccolo team offshore tra Singapore e Malaysia (si parla di un team di sette persone fisse), dove ogni membro si trovò a ricoprire più ruoli contemporaneamente, dal coding al level design, in un approccio quasi artigianale. Quello che doveva essere solo un prototipo interno iniziò però a crescere, spinto dall’entusiasmo degli sviluppatori e dalle prime prove positive.

La ricezione nei test interni convinse Bandai Namco a espandere il progetto, rifinirlo e portarlo a una release vera e propria. Alla fine è stato pubblicato su PC e console come titolo completo, accolto favorevolmente dal pubblico per il suo stile delicato e la sua accessibilità. La telecamera di Hirogami si mantiene funzionale e leggibile, privilegiando sempre la chiarezza del mondo di gioco piuttosto che dinamiche cinematografiche complesse. Non è ruotabile liberamente come nella maggior parte dei platform 3D; può essere spostata con l’analogico destro, permettendo di aggiustare l’inquadratura ma senza cambiare completamente la prospettiva. Nella maggior parte dei livelli segue il personaggio in terza persona, leggermente arretrata, garantendo una buona visibilità di piattaforme, nemici e percorsi da esplorare.

Il design della telecamera si adatta alle variazioni di prospettiva dei livelli: molte sezioni alternano fasi in 3D puro, con movimenti e salti in profondità, a inquadrature a volo d’uccello, più ampie e panoramiche, fino a segmenti in 2D side-scrolling, dove la visuale diventa piatta e lineare. Questa alternanza funziona bene per la varietà di gameplay, anche se nelle fasi più concitate può succedere che la telecamera perda un po’ di precisione o renda più difficile valutare la profondità, specialmente quando si concatenano trasformazioni e azioni rapide. L’approccio resta coerente con la filosofia del gioco: chiaro, semplice e accessibile, senza eccessive rotazioni o effetti dinamici, e capace di adattarsi con leggerezza ai diversi stili di livello.

Si presenta come un’opera che vive della sua estetica, un piccolo mondo di carta piegata che prende vita grazie alla cura di un team dalle dimensioni contenute, sette persone fisse, ma capace di imprimere nella sua creazione una sorprendente solidità. Non ci si trova dinanzi a una produzione mastodontica, ma a un gioco nato più dalla passione e dall’arte che non dalla forza bruta dei grandi studi. E questa natura emerge chiaramente in ogni piega, in ogni angolo, in ogni creatura che popola i suoi livelli.

La trasformazione in rana è quella che vi permetterà di spiccare i salti più alti.

Trippin’ on a Hole in a Paper Heart

Il racconto che fa da cornice all’esperienza è un pretesto sottile: una terra afflitta da un contagio che devasta strutture e luoghi e strappa il senno agli abitanti. Nulla di particolarmente originale, ma funzionale a creare un conflitto, un motivo per dare vita a un viaggio. Non è la trama a dover incantare, quanto l’atmosfera: ed è lì che il gioco trova la sua vera essenza.

La direzione artistica è ciò che colpisce per primo. Il mondo non si limita a imitare la carta, lo diventa: rocce corrugate, corsi d’acqua resi da veli trasparenti, ventagli dispiegati in ponti improvvisati. La luce accarezza queste superfici opache come se davvero scorresse su fibre sottili, mentre ogni nemico, figlio del contagio, sembra ritagliato da mani invisibili con forbici e taglierino. È un’estetica coerente, totale, che non mostra incrinature se non in qualche occasionale pop-in a distanza. Il motore grafico, per quanto non scintillante, regge con grande dignità: i preset permettono una scalabilità che rende il gioco fruibile anche su macchine modeste, sacrificando solo piccoli dettagli senza mai snaturare lo stile complessivo.

In questo mondo cartaceo si viaggia attraverso una mappa che ci consente di (ri)giocare i livelli desiderati: stradine di carta si srotolano per condurre da un livello all’altro, scorciatoie si piegano per abbreviare il cammino e piccoli ambienti in miniatura anticipano ciò che verrà. I livelli stessi sono compatti e leggibili, ciascuno con un tema preciso, arricchiti da obiettivi chiari e da segreti nascosti che premiano l’occhio curioso e l’esplorazione metodica. Origami rari, simboli che aprono nuove palette estetiche per Hiro e piccoli potenziamenti che aumentano resistenza e velocità di trasformazione rendono l’esplorazione appagante senza mai trasformarla in ossessione. Non è raro che un livello, apparentemente lineare, riveli pieghe inattese da rivisitare con nuovi poteri, accrescendo la rigiocabilità senza artifici.

Il sistema di trasformazioni, vero cuore del gioco, richiama alla memoria Kameo: Elements of Power. Come nell’opera di Rare, anche qui ci si muove assumendo forme animali che consentono di risolvere sezioni ambientali e combattere in modi diversi. Ma laddove Kameo accumulava trovate e idee, Hirogami sceglie la via della semplicità: i puzzle sono elementari, le soluzioni sempre a portata di mano, e il flusso di gioco scorre senza mai esigere un reale sforzo d’ingegno. Le trasformazioni stesse, pur varie e divertenti, non sono comodissime da concatenare in sequenza rapida. Capita, per esempio, che un salto con la rana seguito da una trasformazione nell’armadillo per proseguire il combattimento perda un battito, o che i comandi non registrino un input nelle fasi più concitate. Non è un difetto costante, ma un inciampo che tradisce per un attimo la leggerezza generale dell’esperienza.

Hiro, il protagonista, alle prese con due rane poco propense al dialogo.

Papercuts

Il combattimento rimane funzionale, più che profondo. I nemici hanno comportamenti semplici e leggibili, i colpi rispondono con chiarezza, ma tutto resta all’insegna della moderazione: nessuna complessità, nessuna sfida esasperante. Persino le boss fight, che si contano sulle dita di una mano, non rappresentano muri da scalare. Sono eccezioni pensate come spettacoli scenici più che prove di abilità, e la loro gestione conferma questa filosofia: morire durante lo scontro non significa ricominciare da capo, ma riprendere il combattimento con i danni già inflitti al boss, come se nulla fosse andato perduto. È un approccio che smonta qualsiasi frustrazione, in linea con il resto della progressione.

E infatti la morte non è mai punitiva. I checkpoint, generosi, sono disseminati quasi a ogni passo, e ogni caduta riporta a pochi metri dal luogo in cui ci si trovava, con tutti i progressi conservati. Anche nelle stanze affollate, abbattere parte dei nemici e cadere non significa dover rifare tutto: si riprende da dove si era arrivati, affrontando solo i superstiti. Così Hirogami scivola via con un ritmo fluido e leggero, privo di tensioni, sempre pronto a perdonare.

 

La colonna sonora accompagna questo viaggio con grazia. Un delicato tessuto di strumenti orientali: shamisen, koto, flauti soffiati con dolcezza, sostiene ogni passo, modulando i toni senza mai invadere. È musica che avvolge e carezza, più vicina a un respiro che a una marcia, capace di rendere ogni sezione un piccolo quadro sonoro. Allo stesso modo, gli effetti acustici, fruscii di carta che si piega, tocchi ovattati, coriandoli che esplodono in scie luminose, amplificano la coerenza sensoriale del mondo.

Alla fine, Hirogami non è un gioco che ambisce a sorprendere con la difficoltà o con una narrazione profonda. È un viaggio di carta in cui la leggerezza diventa virtù: livelli lineari e vari, trasformazioni immediate, segreti sparsi a premiare la curiosità, una mappa che invita a perdersi senza mai rischiare davvero di smarrirsi. Un viaggio che non vi toglierà mai il sorriso.

Non mancano le piccole ombre, come la semplicità fin troppo marcata dei puzzle, la relativa povertà di trovate rispetto a illustri predecessori o la risposta dei comandi non sempre impeccabile, così come un inspiegabile requisito per accedere al livello finale. Ma è nella sua stessa leggerezza che il gioco trova forza: un’avventura che non pretende di gravare sulle spalle, ma che accompagna con grazia e poesia, come un foglio di carta che prende vita al soffio del vento.


Hirogami è un platform che incanta per la sua estetica delicata e l’atmosfera poetica, offrendo un’esperienza accessibile e scorrevole. La semplicità delle meccaniche, la leggerezza dei combattimenti e l’attenzione ai dettagli grafici lo rendono ideale per chi cerca un viaggio rilassante senza frustrazione per le dieci ore abbondanti necessarie a completarlo. Le trasformazioni animali e i livelli ricchi di segreti premiano l’esplorazione, mentre la telecamera funzionale e la colonna sonora orientale arricchiscono l’immersione. Non brilla per originalità narrativa o complessità, ma intrattiene regalando momenti di puro piacere visivo e ludico. In definitiva, si conferma come un buon platform dall’estetica peculiare, in grado di regalare un viaggio piacevole e rilassante.


 

Provengo da un’epoca particolare, in cui le edicole vendevano videogames e le sale giochi erano giungle urbane abitate da creature stravaganti. Si sognava per mesi (o anni) su una singola immagine vista su rivista, si attraversavano quartieri interi per noleggiare un gioco sperando che fosse ancora lì, pronto ad accoglierci per un’avventura irripetibile. Il marketing si faceva per strada, la console war si combatteva faccia a faccia, e il venditore era una creatura leggendaria. Un mondo folle e ingenuo, forse, ma proprio per questo indimenticabile.