The Supper New Blood Recensione: altro che fredda, una vendetta ben condita e cotta a puntino!

the supper new blood

Octavi Navarro emerge dalle vie di Barcellona come un artigiano dell’immaginario digitale, un creatore che ha saputo intrecciare la precisione del graphic design con l’anima viva dei videogiochi. Fin dai primi passi nella pixel art, la sua mano ha plasmato mondi minuziosi, popolati da personaggi e scenari che sembrano respirare dietro lo schermo, raccontando storie di tensione, ironia e piccoli segreti nascosti.

La sua esperienza lo ha portato a collaborare con nomi illustri dell’avventura punta e clicca: in Thimbleweed Park, sotto la guida di Ron Gilbert e Gary Winnick, ha dato vita a ambientazioni che richiamano l’epoca d’oro delle avventure LucasArts, mentre con il team di Broken Age di Tim Schafer ha lasciato la sua impronta in un universo già ricco di fascino.

Nel 2019, con il supporto della moglie Susanna Granell, che si occupa della parte commerciale, dei social media e della scrittura, Navarro ha fondato Octavi Navarro Arts & Games, uno studio che è diventato una fucina di racconti interattivi in pixel art. Tra le loro opere più riconoscibili si contano le serie Midnight Scenes, Unwelcome, The Librarian e The Supper, ciascuna permeata di un senso di mistero, di ironia sottile e di quella capacità rara di fondere estetica e narrazione con naturalezza.

Seguire Navarro significa immergersi in mondi dove il dettaglio diventa protagonista, dove l’umorismo nero si nasconde dietro ogni pixel e ogni interazione è studiata per sorprendere e intrattenere. The Supper, il suo primo capitolo della serie di cui New Blood è il seguito diretto, è disponibile gratuitamente su Steam ed è un piccolo gioiello che precede e prepara le atmosfere di questo secondo episodio. Non è obbligatorio giocarlo per seguire la storia ma è caldamente consigliato. Chi ha voglia di esplorare ulteriormente questo autore può avventurarsi in Midnight Scenes: A Safe Place, un’altra testimonianza della sua maestria ma applicato ad un contesto molto differente.

Influenzato dai limiti tecnici dei primi sistemi di gioco e dalla potenza evocativa dei classici, Navarro ha saputo trasformare queste restrizioni in forza, creando mondi complessi e vivi con mezzi semplici ma espressivi. Ogni sua opera è un ponte tra la nostalgia dei grandi classici e la modernità dell’indie, un invito a scoprire storie oscure, ironiche e affascinanti. The Supper: New Blood è il suo ultimo lavoro, e davanti a noi si apre la possibilità di immergersi nuovamente nel suo mondo; se posso permettermi una nota personale, non vedevo l’ora.

I riferimenti e le citazioni si sprecano…

Psycho killer, run, run, run, run, run, run away! Oh, oh!

Nella solitudine inquietante del Twin Sisters Motel, che molto ha a che spartire con il ben più famoso Bates teatro di Psycho, Stewie Shackleroeder Appleton trascorre le sue giornate in un silenzio interrotto solo dal gracchiare insistente del suo consigliere più fedele, Martin, un corvo dal piumaggio lucente e dallo spirito tanto arguto quanto moralmente distorto. Ormai divenuto proprietario e gestore dell’albergo a causa della dipartita del nonno, il protagonista di questa storia conserva un passione bruciante per l’arte culinaria, una delle eredità dalla sua trisnonna, protagonista del primo The Supper, cuoca e proprietaria di un risotorante a Widowport.

L’ultimo rampollo della famiglia Appleton, vaga in bilico tra la sua natura esitante e il richiamo oscuro della giustizia privata, destinata a colpire i soprusi che gravano come un’ombra sulle sue giornate. Tra i primi a esigere il tributo di tale vendetta vi è lo sceriffo locale, figura ambigua e sinistra: colui che, quand’egli era ancora un bambino, gli tese la mano salvandolo da un rapitore che lo aveva segregato per quattro lunghi anni, ma che da allora non ha mai smesso di reclamare il proprio prezzo. Un’offerta periodica, un ringraziamento imposto e mai estinto, che da anni incombe come un debito eterno, trasformando il salvatore in carceriere e il gesto di pietà in catena insanguinata.

È così che il fragile filo della sopportazione si infrange, e Stewie abbandona ogni esitazione per cedere al richiamo dell’azione. Decide quindi di porre rimedio ai mali del mondo a suo modo, (mal)consigliato, al solito, da Martin. Ogni nuovo avventore che varca la soglia dell’albergo diventa allora un enigma da svelare, un’anima da scandagliare nelle sue ombre per svelarne la natura ed eventualmente, se necessario, intervenire.

A facilitarlo nel suo operato vi è un cocktail, offerto con garbo dal manager come gesto di cortesia, ma in verità intriso di un siero capace di sciogliere le menzogne e costringere alla confessione: un vero e proprio siero della verità. Quelle chiacchiere, all’apparenza frivole e spensierate, si rivelano dunque confessioni strappate con crudele naturalezza, verità esalate come miasmi da bocche ignare: un banchetto di segreti da assaporare lentamente, per distinguere la colpa dall’innocenza, la vittima dal carnefice, e decidere così il destino di chi ha osato varcare la soglia del suo Motel.

Una volta accertata la malvagità del suo ospite, Stewie può procedere con la sua personale crociata di purificazione, trasformando l’interrogatorio nel preludio alla punizione. Che le sue decisioni non rispondano certo a un concetto di equilibrio o sanità mentale è chiaro fin dal titolo e dal trailer, e infatti l’avventura prende forma come una dark comedy grottesca: macabra, ironica e a tratti così esageratamente violenta da risultare più surreale che disturbante. Non viene però lasciato spazio all’immaginazione: ogni gesto è mostrato senza filtri, sospeso tra tensione e sarcasmo, come un episodio perduto di Dexter trasposto in pixel art.

Gli eventi si mettono in moto all’arrivo di un pullman che si rompe in prossimità dell’albergo e costringe tutti i suoi passeggeri ad una sosta forzata in attesa che l’autista recuperi i pezzi di ricambio per ripartire. Da qui partirà la morbosa indagine del timido manager sui nuovi ospiti che affollano le stanze e i corridoi solitamente silenziosi del Twin Sisters Motel, fondendo mistero, investigazione e dark comedy in un’unica danza morbosa.

Il famosissimo ricettario della trisnonna protagonista del primo The Supper

Helter Skelter

Com’è ovvio si parte dal check-in dei nuovi arrivati, un rito formale che cela tuttavia uno scopo più subdolo: l’intervista agli ospiti è una scusa per raccogliere indizi e confessioni, un’anticipazione dei destini che li attendono. Il gioco si struttura in tre fasi distinte ed è scandito dal passare dei giorni, più un epilogo inatteso, ogni notte.

Il primo atto introduce il giovane motelier ed il suo consigliere gracchiante, mostrando brevi frammenti della sua quotidianità necessari per comprenderne la psiche. Poi, la storia si espande, offrendo libertà relativa ma sostanziale: potremo scegliere quale degli ospiti analizzare, spiare ed eventualmente interrogare.

La seconda parte si dispiega con i tratti di un’avventura punta e clicca, ma spogliata delle sue complicazioni consuete, come se l’intera interfaccia fosse stata ridotta all’essenziale, lasciando emergere solo l’ossatura scheletrica del genere. Un tocco sul tasto destro rivela d’un colpo tutti gli oggetti con cui è possibile intrecciare il destino del protagonista, così pochi e circoscritti da poterli enumerare sulle dita di una sola mano. Con il tasto sinistro, invece, l’azione si compie in maniera automatica, senza possibilità d’errore.

Sulla destra dello schermo, una descrizione ci spiega i dettagli dell’interazione, e quando l’occasione lo permette, compare un vuoto slot, pronto ad accogliere l’oggetto necessario a trasformare un dettaglio in chiave, un frammento in soluzione. Tutto il resto rimane sospeso nell’inutilità scenica, pura scenografia che avvolge come un sipario oscuro, facendo risaltare gli elementi atti a proseguire la storia di Widowport e dei suoi eccentrici abitanti.

In questa fase l’aria greve della cittadina si alleggerisce appena, permettendo a Stewie di muoversi liberamente tra le sue strade e i dintorni, con l’inevitabile tappa al Twin Sisters Motel, che osserva i passanti come un vecchio attore stanco ma ancora pronto alla sua parte. Lo scopo è semplice, quasi banale: raccogliere ingredienti per dare vita alle ricette della trisavola, racchiuse in un libro custodito come fosse un vangelo domestico, un manuale di cucina che suona però più come un’ammissione di colpevolezza che come un ricettario di famiglia.

Qui il gioco non indulge in crudeltà gratuite: niente pixel hunting, nessuna ricerca disperata tra scenari affollati di dettagli irrilevanti. Anzi, gli oggetti con cui interagire sono pochi, ed ancor meno quelli che potrete raccogliere, e spesso le soluzioni vengono servite al giocatore con la stessa premura di un cameriere che porta il menù già spuntato. Il giornale locale, per esempio, si limita a offrire notizie che altro non sono che hint sfrontati, più vicini a soluzioni travestite che a veri enigmi; e, ancor prima, sono gli stessi personaggi con cui parlerete a rivelarvi esplicitamente cosa fare e dove farlo.

La primissima scena che serve a spiegarci l’amore per la cucina di Stewie, tra le altre cose…

The Supper New blood: Long live the Appletons!

Il livello di sfida è dunque modesto, quasi inesistente: un invito a gustarsi la storia senza fretta, come un ospite a tavola che sa di non rischiare mai di restare digiuno. Devo però ammettere che l’assenza totale di stimoli mi è pesata, come un boccone che non va né su né giù e rimane lì a ricordare costantemente che qualcosa è andato storto, lasciando un retrogusto amaro che accompagna tutto il resto del pasto, soprattutto dopo aver assaggiato prodotti come il recente e bellissimo The Drifter.

Qui il piacere sta soprattutto nel lasciarsi trasportare dal filo della narrazione, nell’apprezzare i dettagli e l’umorismo nero che affiorano tra un ingrediente e l’altro. Non c’è mai il timore di restare bloccati davanti a una porta chiusa: semmai, ciò che mi ha pesato è stato procedere quasi per inerzia, senza la necessità di soffermarmi a riflettere su ciò che stavo facendo.

Il terzo atto si consuma ai fornelli, dove il protagonista, armato più di entusiasmo che di reale talento, si ritrova a improvvisarsi cuoco in stile Venba, anche se più nella forma che nella sostanza. Ogni gesto diventa una piccola prova: tagliare senza sbagliare, mescolare senza rovesciare, cuocere senza carbonizzare. A premiare o meno l’impegno del fantasioso ed improvvisato Chef arriva poi il giudizio finale espresso in stelle, sperando nel plauso dei commensali a ricompensa della fatica e dell’impegno profuso.

Ma vi è anche una quarta parte, che non appartiene al mondo della veglia ma al regno dei sogni, chiudendo ogni giornata con un tocco surreale. Qui prende forma un curioso circo creato dal subconscio, che sembra voler aiutare Stewie a liberarsi dal senso di colpa, con risultati spesso strani e imprevedibili. Il ciclo si ripete ogni giorno, accompagnando l’avventura fino all’epilogo dopo circa tre ore di gioco, in un fluire continuo di sogni e veglia che completa l’esperienza del gioco.

Lo stile grafico di The Supper: New Blood richiama immediatamente alla mente le avventure classiche in pixel art, ma filtrate attraverso un gusto più sobrio e autoriale. La tavolozza dei colori è volutamente ridotta, un richiamo ai tempi dei giochi classici, eppure animata da un’intensità tutta moderna. Allo stesso tempo, la cura delle micro-espressioni dei personaggi rimanda direttamente ai precedenti lavori di Octavi Navarro, come A Safe Place, in cui i pixel non sono solo elementi grafici, ma attori silenziosi che animano l’umorismo nero e le dinamiche della storia.

Non è un’esplosione di colori alla Monkey Island, né una tavolozza straripante di tonalità come nelle avventure LucasArts: qui i toni sono misurati, calibrati, capaci di sottolineare con eleganza ogni azione, ogni oggetto da raccogliere, ogni interazione. Ogni “schermata” ha un colore dominante e l’effetto complessivo è quello di un mondo vivo e coerente, in cui l’occhio del giocatore viene guidato senza mai essere sovrastato, e in cui il gusto per il dettaglio e l’ironia nera si fondono per creare un’esperienza unica, discreta.


The Supper: New Blood è un’esperienza che trasmette un’aria davvero rara nel panorama videoludico contemporaneo e per questo non posso che consigliarla a tutti gli amanti del genere punta e clicca. La sua estetica distintiva, l’umorismo nero fuori dagli schemi e alcune scene che richiamano l’assurdità di Danganronpa conferiscono al gioco un fascino innegabile e un carattere tutto suo, quasi unico nel suo genere. Tuttavia, è anche una gigantesca occasione mancata: la scelta di ridurre il livello di sfida a quasi zero, relegando in secondo piano l’aspetto ludico, pone l’accento sulla storia che, sebbene divertente, non riesce da sola a tenere in piedi l’intera produzione. Non aiuta il fatto che gli eventi sono svelati senza troppi indugi, le dinamiche restano lineari e i colpi di scena latitano, rendendo il percorso narrativo piacevole ma privo di quella scintilla in grado di sorprendere o emozionare scorrendo con estrema linearità verso la fine. Peccato, perché la cicca c’è, in abbondanza. Ehm…


 

Provengo da un’epoca particolare, in cui le edicole vendevano videogames e le sale giochi erano giungle urbane abitate da creature stravaganti. Si sognava per mesi (o anni) su una singola immagine vista su rivista, si attraversavano quartieri interi per noleggiare un gioco sperando che fosse ancora lì, pronto ad accoglierci per un’avventura irripetibile. Il marketing si faceva per strada, la console war si combatteva faccia a faccia, e il venditore era una creatura leggendaria. Un mondo folle e ingenuo, forse, ma proprio per questo indimenticabile.