Silent Hill f Recensione: la nebbia agli irti colli, piovigginando sangue

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Il survival-horror è un genere videoludico che si basa sulla vulnerabilità e la minaccia. L’obiettivo non sono i semplici jump-scare, ma creare un’atmosfera opprimente a causa della scarsità di risorse, munizioni limitate e un level design claustrofobico. La sopravvivenza si fonda sulla gestione dell’inventario, la risoluzione di enigmi e la decisione strategica di combattere o fuggire.

Un sottogenere di questo filone è l’horror psicologico, che sposta il terrore dal piano fisico a quello mentale. La paura deriva da una profonda inquietudine interiore piuttosto che da mostri o zombie, sfruttando simbolismo, narrazioni non lineari e ambiguità per disorientare il giocatore. La realtà si deforma, i ricordi si confondono con le visioni e il male spesso ha origine nei traumi interiori dei personaggi. Il vero terrore non è un mostro da cui fuggire, ma un viaggio allucinato per affrontare i propri demoni.

In questo sottogenere, Silent Hill è un punto di riferimento assoluto. Nata nel 1999, la serie usa l’omonima città come specchio dei traumi e dei sensi di colpa dei suoi protagonisti plasmando mostri e scenari in base ai segreti più oscuri dei personaggi, creando un’esperienza che va oltre il semplice survival, diventando un’indagine nelle profondità dell’animo umano.

Neanche mezzo bicchiere di sangue è stato sacrificato per creare questa immagine. Sono tutti fiori.

Silent Hill f: pretty hate machine

La serie negli anni si è evoluta in un fenomeno transmediale, espandendosi in film e fumetti che, pur offrendo nuove prospettive su temi come colpa e follia, hanno mantenuto intatta l’essenza tormentata del marchio. A riprova di questa continua evoluzione, il franchise si prepara a un nuovo capitolo con Silent Hill f. Questo titolo, che omette la numerazione, rappresenta una svolta audace.

Tuttavia, dopo il successo dei primi capitoli, la saga ha subito un calo qualitativo innegabile. Con lo scioglimento del Team Silent, responsabile dei primi quattro giochi, Konami ha affidato lo sviluppo a team occidentali, producendo titoli come Homecoming e Downpour. Pur introducendo idee interessanti, questi giochi sono stati criticati per aver perso la profondità psicologica e l’atmosfera unica dei primi capitoli, virando verso un’azione più convenzionale e meno efficace. La serie ha visto un rinnovato interesse grazie all’ottimo remake di Silent Hill 2, uscito alla fine dell’anno scorso. Per cavalcare l’onda del successo, Neobards Entertainment ha raccolto il testimone del lavoro svolto da Bloober Team con un nuovo episodio, cercando di rilanciare ulteriormente il franchise.

Sebbene sia uno studio relativamente giovane, fondato nel 2017, si è guadagnato una solida reputazione come co-sviluppatore, in particolare per Capcom. Il loro curriculum include un ruolo chiave in progetti di alto profilo come i remake di Resident Evil 2 e 3, Resident Evil Village e Devil May Cry 5. Questa esperienza, maturata su grandi produzioni e su motori grafici complessi come il RE Engine, rende lo studio una scelta intrigante per la sua prima vera prova di maturità.

Sentite anche voi la voce anche voi la voce di Yuzuki che canta Dear You o succede solo a me?

Per gli appassionati della saga, è cruciale notare che sono state fatte scelte importanti, alcune delle quali segnano una rottura profonda con le radici della serie. Intanto l’ambientazione sposta l’orrore dalle cittadine americane a un villaggio montano in Giappone. Il gioco infatti si svolge nella fittizia cittadina di Ebisugaoka, il cui design si ispira a una località reale: Kanayama, nella prefettura di Gifu. Inizialmente, gli sviluppatori avevano considerato la prefettura di Shizuoka (il cui nome si traduce come “collina tranquilla” o “collina silenziosa”) ma l’idea fu scartata. La massiccia presenza del Monte Fuji avrebbe “sovrastato” l’atmosfera opprimente e nebbiosa che il gioco intende creare.

Un altro elemento spiazzante è il periodo storico in cui si è scelto di ambientare la storia: negli anni ’60, in piena epoca Showa. Questa scelta non è casuale, ma intende intrecciare l’orrore psicologico con un preciso contesto storico e sociale. All’epoca, le donne giapponesi si trovavano in una posizione di costante tensione tra le libertà conquistate, come il voto, e le profonde aspettative culturali che le relegavano al ruolo tradizionale di “buona moglie, saggia madre” (ryōsai kenbo). Erano figure centrali nella vita domestica, ma spesso emarginate dalla società e private di autonomia e libertà di scelta.

In questo contesto di transizione, dove la figura femminile è sospesa tra fragilità apparente e una forza interiore, si inserisce la protagonista, Hinako. Il suo nome, traducibile anche come “piccolo uccellino”, assume un profondo valore simbolico ricorrente, richiamando la vulnerabilità e i limiti imposti alle donne dell’epoca. Il suo viaggio, tra pericoli fisici e psicologici, riflette le tensioni e i sacrifici silenziosi affrontati dalle donne giapponesi di quel periodo. La protagonista si trasforma così in un archetipo di resilienza storica, che arricchisce l’orrore del gioco con un crudo realismo e una profondità narrativa.

Oggi il Giappone è formalmente moderno e garantisce pari diritti alle donne, ma la cultura patriarcale e le aspettative tradizionali restano ancora forti. Le donne hanno certamente più libertà e opportunità rispetto al passato, ma si confrontano ancora con barriere strutturali, disparità economiche e pressioni sociali legate a matrimonio, maternità e cura della famiglia.

Tuttavia, le nuove generazioni stanno iniziando a rivendicare con maggiore forza autonomia, carriera e diritti, segnando un lento ma evidente cambiamento. È in questo contesto, dove il passato e il presente si sfiorano, che l’ambientazione del gioco negli anni ’60 permette di riflettere storicamente sulla vulnerabilità femminile, sul peso delle aspettative sociali e sulle limitazioni imposte. Personaggi come Hinako incarnano proprio questa tensione: figure che devono destreggiarsi tra una fragilità percepita e una forza nascosta, tra ruoli tradizionali e l’esigenza di affrontare emergenze straordinarie, proprio come le donne giapponesi dell’epoca, divenendo un simbolo di resilienza e di un sacrificio silenzioso oltre che un argomento incredibilmente attuale.

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E se poi te ne penti? (vers. Silent Hill)

We’re in this togheter

Stravolti altri due aspetti storici: il il design dei mostri e “l’altro mondo” che in Silent Hill f segna una netta e affascinante evoluzione per la serie, abbandonando le figure deformi e innaturali, con corpi slabbrati e movimenti innaturali, per abbracciare un’estetica che fonde orrore e natura. Le creature sono una fusione macabra e disturbante di carne e vegetazione, con entità che assumono l’aspetto di fiori o piante mutate, evocando una bellezza inquietante tipica della tradizione horror nipponica.

Questa nuova direzione si riflette anche nell’otherworld, che non è più un inferno di ruggine e metallo, ma un paesaggio da incubo organico e floreale. L’incarico di concepire mostri è stato affidato a Kera, una famosa illustratice, con la richiesta di rispettare l’eredità della saga ma di attingere con forza al folklore e all’estetica del Giappone, e già nei concept art ufficiali il suo lavoro si è imposto con prepotente evidenza e giocandolo ho potuto confermare le già ottime impressioni iniziali. Lo stile scelto intreccia orrore e bellezza, generando nello spettatore emozioni contrastanti e inquietudini profonde. La sua abilità nel creare esseri che fondono il biologico con il grottesco promette di infondere un orrore visivo completamente nuovo e indimenticabile.

Come da tradizione, anche in questo nuovo capitolo le creature si configurano come incarnazioni mostruose dell’inconscio, metafore di paure e colpe tradotte in carne deformata: non meri nemici, dunque, ma allegorie viventi, simboli narrativi che parlano più con la loro forma che con le parole. C’è da notare però che, per i più attenti, la produzione ha ricevuto la classificazione CERO (equivalente del PEGI giapponese) più alta assegnabile, la “Z”. Di certo non per errore, infatti “F” si distingue nettamente risultando di gran lunga più cruento della serie per la presenza di scene di violenza e gore a dir poco disturbanti. Sebbene questi momenti macabri non siano costanti, il loro impatto visivo è talmente potente da renderli indimenticabili, segnando un nuovo, e più estremo, confine nella rappresentazione dell’orrore per il franchise.

Questo episodio va inoltre incasellato in un momento storico a dir poco particolare per i videogiochi, un periodo in cui sbagliare (non vendere abbastanza) significa mettere a repentaglio posti di lavoro ed in alcuni casi anche la sopravvivenza stessa della software house. C’è stato un tempo, risalente a un paio di generazioni di console fa, in cui le case di sviluppo giapponesi erano sinonimo non solo di qualità, ma di pura sperimentazione. Poi, l’escalation dei costi di produzione, l’allargamento del bacino d’utenza e una lunga serie di ragioni economiche hanno reso sempre più rara la ricerca di nuove idee, spingendo il mondo dei videogiochi verso prodotti “sicuri” per evitare flop con conseguenze spesso disastrose.

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Visione dall’alto di Ebisugaoka, il paese che fa da teatro per Silent Hill F

Closer

In questo panorama, Silent Hill f emerge come un titolo che non teme di osare. Pur con scelte a tratti discutibili e un’evidente distanza dalla perfezione, ha quella magia che apparteneva a certi capolavori del passato. È un gioco in cui si entra in punta di piedi, che chiede di essere prima compreso che giocato, ma che poi è capace di risucchiarti in una dimensione completamente diversa, con regole tutte sue. Rappresenta un raro ritorno alla sperimentazione in termini di meccaniche, idee e struttura, un promemoria di un’epoca in cui i limiti erano visti come una sfida e si potevano perseguire anche idee apparentemente assurde o visioni deliranti, assumendosi qualche rischio in più.

Torniamo un attimo alla sceneggiatura ed al racconto vero e proprio, affidata alla penna di Ryukishi07: un nome di spicco nel mondo delle visual novel e dell’horror, celebre soprattutto per aver creato la serie di successo Higurashi no Naku Koro ni ed Umineko no Naku Koro ni che ha raggiunto la fama internazionale con le sue storie horror-mistery.

Il suo talento nella scrittura di storie complesse lo ha reso una scelta perfetta: le sue storie si basano su un orrore che nasce dall’incertezza, dal dubbio e dal crollo della mente umana, esattamente l’essenza dei primi capitoli della nebbiosa saga. L’idea di un mondo che si plasma in base ai traumi e alle colpe è un concetto che lo sceneggiatore ha esplorato in profondità nelle sue opere precedenti, la sua capacità di distorcere la realtà e di rendere tangibili le paure interiori dei personaggi è un allineamento perfetto con il DNA della serie.

La mano di Ryukishi07 come sceneggiatore è evidente fin dalle prime sequenze, poiché Silent Hill f e Higurashi no Naku Koro ni condividono una serie di sorprendenti e profonde analogie. Entrambi i titoli si sviluppano in un’ambientazione rurale giapponese e isolata, un contesto che, privo dei punti di riferimento metropolitani, accresce in modo significativo il senso di vulnerabilità e paranoia. Un forte elemento simbolico è l’uso ricorrente del Lycoris radiata, il “fiore della morte“, che in entrambe le opere funge da sinistro presagio di tragedia imminente. In ciascuno, la realtà non è mai ciò che sembra.

La percezione si deforma e si piega per riflettere i traumi e le tensioni psicologiche dei personaggi, rendendo l’orrore non una minaccia esterna, ma un’emanazione diretta della psiche umana. Scene iconiche, come quella del “bento”, seppur rivisitate, sono inequivocabili omaggi che non solo richiamano alla mente l’universo di Higurashi, ma ne riprendono l’inquietudine profonda. Anche l’influenza sui personaggi è lampante, ma lascerò a voi il piacere della scoperta.

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E’ difficile spiegare quanto mi abbia inquietato questa parte…

Silent Hill f: by this river

E’ ora di entrare nel vivo e parlare del gioco vero e proprio, ma lasciatemi un’ultima considerazione: il vero splendore di quest’opera risiede nella scoperta, nell’ignoto che il giocatore è chiamato a svelare passo dopo passo. L’esperienza di gioco sarà tanto più profonda quanto minore sarà la conoscenza pregressa del giocatore. C’è tanto da capire, ancor di più da vedere, e tanto di cui ragionare in un titolo che gioca letteralmente con lo spettatore/giocatore utilizzando ampiamente il foreshadowing per poi lasciarvi a bocca asciutta per ore senza riprendere l’argomento anticipato, c’è da scavare e cercare informazioni con bramosia, per cercare quella tessera in più che può permettere di vedere un pezzetto in più dell’intricatissimo puzzle che la trama di Silent hill f.

Vi troverete a dubitare di ciò che vedrete, a interpretare ogni dettaglio, e capirete che le dodici ore necessarie per completarlo non rappresentano la fine, bensì l’inizio di un mistero che, a ogni nuova partita nel “new game plus” si arricchisce di informazioni e dettagli preziosi. Non si tratta di semplici completamenti o piccole aggiunte, ma di elementi fondamentali per comprendere gli eventi principali. La saga è famosa anche per aver sempre proposto finali multipli legati a requisiti specifici, ma non li aveva mai intrecciati in una struttura tanto unica e sfaccettata. Chi conosce Higurashi sa esattamente a cosa mi riferisco.

La storia parte di una premessa assolutamente normale, quasi banale: in una tranquilla cittadina di montagna chiamata Ebisugaoka, seguiamo le vicende di un gruppo di amici, le cui giornate scorrono serene tra i negozi di dolciumi, le passeggiate nelle risaie e le esplorazioni dei boschi. La protagonista è Hinako Shimizu, una studentessa delle superiori che conduce una vita apparentemente spensierata, sebbene gravata dal peso delle aspettative della famiglia e della società. Ma questa idilliaca routine viene infranta dall’arrivo di una fitta e innaturale nebbia che inghiotte la città. Il mondo familiare di Hinako si contorce, trasformandosi in un incubo desolato e terrificante.

Dal punto di vista ludico, l’esplorazione è sempre stata un pilastro dei survival horror, dove ogni anfratto e ogni cassetto possono significare la differenza tra la vita e la morte. In questo caso, l’esplorazione non è solo caldamente consigliata, ma diventa un elemento imprescindibile del gameplay. Non si tratta solamente di cercare risorse, munizioni e vie di fuga, ma di scovare potenziamenti essenziali per la sopravvivenza.

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Alcuni incontri sembrano davvero usciti da un incubo e le movenze della “signora” in cima alle scale non aiutano…

Il gioco introduce un sistema di potenziamento del personaggio che richiede due elementi: la fede e le tavolette Ema. Queste ultime, piccole tavolette di legno tipiche della tradizione shintoista giapponese, sono disseminate per l’ambiente di gioco e spesso celate in luoghi difficilmente accessibili, rendendo l’esplorazione meticolosa una priorità assoluta per affrontare al meglio l’avventura. Lo stesso principio si applica all’inventario, che può essere espanso solo tramite potenziamenti dedicati, reperibili unicamente esplorando con attenzione o risolvendo enigmi opzionali. Sebbene il numero di questi potenziamenti non sia elevato, trovarli è di vitale importanza per semplificare il cammino della protagonista.

Inoltre, quasi tutti gli oggetti che troverete hanno una duplice funzione: possono essere usati per ricaricare la salute, la stamina o la sanità mentale, oppure possono essere sacrificati per ottenere punti fede, la valuta di gioco. Con questi punti è possibile non solo recuperare sanità mentale, ma anche acquistare Omamori, potenti amuleti che conferiscono bonus passivi, o potenziare le quattro abilità del personaggio, in combinazione con una tavoletta Ema. Questa meccanica è un tentativo coraggioso quanto rischioso negli ingranaggi di un survival horror.

Vi troverete a gestire un numero notevolmente maggiore di oggetti, ma sarete costretti a bilanciare l’uso di questi per curarvi o per migliorare le capacità di Hanako. È una scelta di design audace che, sebbene non priva di rischi, si integra in modo sorprendentemente efficace nelle complesse dinamiche di gioco. Come da tradizione la mappa si aggiorna da sola, Hinako aggiorna tutto in tempo reale: passaggi bloccati, incontri avvenuti sotto forma di nemici, casa dei propri amici. Il territorio non è molto esteso, anzi, in generale le aree sono di dimensioni abbastanza limitate sia al chiuso che all’aperto.

Ogni sezione apre una porzione diversa della mappa ma in generale le parti in cui si può girare liberamente sono davvero poche. Inoltre in generale i bivi presenti portano al classico vicolo cieco con qualche risorsa da raccogliere e poco altro rendendo il percorso abbastanza lineare, per capirci non aspettatevi l’Hotel Lakeview o l’ospedale di Brookhaven di del remake del secondo episodio perchè non li troverete.

Gli effetti sonori del gioco sono eccellenti, mentre le musiche, pur essendo presenti in alcune cutscene e combattimenti per indurre ansia, sono meno incisive e poche in numero. C’è molto più spazio per il sound design, che è a un livello eccezionale, e che si concentra su suoni e rumori per creare tensione. Questo approccio è sorprendente, considerando la partecipazione di compositori di alto calibro come Akira Yamaoka e Kensuke Inage, e della collaborazione con Dai e Xaki, mi aspettavo di più dalla componente musicale sia in termini di presenza che di qualità.

Rinko in tutta la sua esplosiva simpatia e giovialità

The downward spiral

Dal punto di vista artistico e tecnico, la grafica rappresenta uno dei suoi maggiori punti di forza. L’ambientazione è tanto spettacolare quanto terrificante, riuscendo a trasmettere un senso di claustrofobia anche in ampi spazi aperti. L’orrore si discosta dai cliché, attingendo invece al folklore giapponese per creare creature grottesche e di una perversa eleganza. Sotto il profilo tecnico, il gioco, sviluppato con l’Unreal Engine 5, mi ha sorpreso positivamente per la sua eccezionale stabilità, riducendo al minimo problemi comuni come lo stuttering e mantenendo un frame rate stabile.

Questa padronanza tecnica, unita a un’attenzione maniacale per dettagli come gli effetti di luce, le ombre e i riflessi, contribuisce a un’immersione profonda, rendendo la qualità visiva pulita e di altissimo livello che permette al giocatore di immergersi completamente nell’atmosfera senza distrazioni tecniche.Ciò che colpisce di più è l’uso sapiente della luce e della nebbia. La luce, in particolare, non è solo un elemento tecnico, ma narrativo. Penetra attraverso le finestre, proietta ombre inquietanti e crea un senso di mistero e terrore anche in spazi apparentemente innocui.

La nebbia, un elemento classico della serie, è stata rivista e potenziata: è densa e avvolgente, e interagisce in modo dinamico con l’ambiente e il giocatore, nascondendo non solo mostri ma anche indizi. Anche i dettagli ambientali sono di altissimo livello. Ogni risaia, ogni tempio e ogni abitazione sembrano vivi e autentici. La combinazione di una direzione artistica impeccabile e di una realizzazione tecnica solida fa sì che il mondo di gioco sembri non solo realistico, ma anche palpabile e minaccioso.

Ottime anche le animazioni delle creature. I mostri non si muovono come normali esseri viventi; le loro animazioni sono contorte e inquietanti, riflettendo la loro natura soprannaturale e la loro “perversa eleganza“. Si nota un grande lavoro di motion capture o di animazione manuale per rendere i movimenti dei mostri organici e imprevedibili. Le creature “floreali” si contorcono in modi innaturali, e questo design è supportato da animazioni che ne sottolineano il carattere malato e disturbante.

A lasciare perplessi, invece, sono le movenze della protagonista, Hinako Shimizu. L’intenzione di presentarla come una persona comune e non una combattente, elemento chiave della serie, si traduce in animazioni goffe e impacciate. Questo è particolarmente evidente nel combattimento, dove i suoi attacchi sono lenti e sgraziati. È chiaro che si tratta di una scelta di design consapevole, ma dover attendere quasi due secondi dopo aver premuto il tasto di attacco, sperando di colpire un nemico che spesso interromperà l’azione, è una dinamica a dir poco singolare.

Questa scelta di design ha un duplice effetto. Da un lato, rende il personaggio più realistico e accentua il senso di vulnerabilità e impotenza, pilastri dell’orrore della serie. Dall’altro, però, può risultare frustrante per i giocatori abituati a sistemi di combattimento più fluidi, a causa del ritardo tra l’input e l’azione che rende il gameplay meno reattivo. In sostanza, le animazioni di Hinako sacrificano la pura fluidità di gioco per un maggiore impatto atmosferico e narrativo.

La verità, in questo caso, si trova probabilmente nel mezzo. La serie ha sempre concepito il combattimento come una risorsa estrema, un’ultima carta da giocare per disperazione piuttosto che una strategia attiva. Sebbene alcuni capitoli abbiano aderito a questa filosofia più di altri, è un principio che ha sempre definito il franchise. Tuttavia, il remake di Silent Hill 2 ha messo in discussione questo “dogma”, introducendo un sistema di combattimento che, una volta padroneggiato, permetteva di affrontare gli scontri con successo e coerenza. Questo aspetto, pur essendo un pregio per alcuni, è stato considerato un difetto da altri. Indubbiamente, ha modificato profondamente l’intento dell’originale, il cui sistema di combattimento era considerato “orrendo” ma perfettamente funzionale alla rappresentazione del senso di impotenza del protagonista.

Un banchetto degno di una festa importante.

Silent Hill f: where is my mind?

Passiamo ora a uno degli aspetti più dibattuti del gioco, che è poi una delle catene, sicuramente la più pesante, che gli impedisce di raggiungere vette ancor più alte: il suo sistema di combattimento. La scelta più radicale, e che ha fatto discutere, è la totale rimozione delle armi da fuoco. Sono state eliminate completamente, senza compromessi. Il gioco si concentra esclusivamente sul corpo a corpo, e su un approccio che favorisce la sopravvivenza disperata piuttosto che la potenza offensiva.

Non è necessario affrontare ogni singolo nemico, anzi, il combattimento non offre alcun vantaggio: non c’è bottino, né punti esperienza, ma solo rischi e una perdita di risorse vitali. I nemici, di conseguenza, diventano non tanto avversari da sconfiggere, ma ostacoli da eludere. Sono presenze fisse e inquietanti che sembrano cercarci, osservarci e giudicare ogni nostro passo. Combattere diventa così un lusso raro, o, per dirla in modo più preciso, un male necessario, da evitare ogni qualvolta sia possibile. Il sistema di combattimento si basa esclusivamente sul corpo a corpo, con le armi divise in tre macro-categorie: pesanti, medie e leggere.

Esiste una meccanica nascosta di tipo “sasso, carta, forbice” che modifica il danno in base alla tipologia d’arma e al mostro che si sta affrontando, rendendo la scelta tattica un elemento cruciale. Tra le novità del gameplay, fa il suo ritorno la barra della stamina, già presente in Silent Hill: Downpour. In questo capitolo, la stamina non governa solo la corsa, ma anche l’esecuzione delle schivate e degli attacchi.

Il gioco introduce una barra della sanità mentale, posizionata sopra quella della vita. Questa diminuisce sia a causa di certi attacchi nemici sia con l’uso della nuova meccanica di concentrazione. Attivabile tramite il grilletto sinistro, la concentrazione rallenta il tempo, facilitando l’esecuzione di contrattacchi mirati. Sebbene sia possibile contrattaccare anche senza usarla, il tempismo richiesto è molto più stretto. Inoltre, il consumo di sanità mentale permette di sferrare potenti attacchi caricati, in grado di spezzare la guardia dei nemici e infliggere colpi consecutivi.

Le opzioni difensive del gioco sono piuttosto limitate: oltre al contrattacco, avrete a disposizione la schivata (che presenta l’animazione meno riuscita del gioco) e la possibilità di parare con alcune armi specifiche. Un altro aspetto cruciale è la gestione delle risorse. Potrete trasportare solo tre armi contemporaneamente, il che vi costringerà a fare scelte strategiche, considerando l’ampio arsenale disponibile e l’efficacia variabile di ogni arma sui diversi tipi di nemici. Ogni arma, inoltre, ha una barra della durabilità che, una volta esaurita, ne provoca la rottura definitiva. Tuttavia, è possibile intervenire prima che ciò accada, ripristinando la durabilità con appositi kit di riparazione.

Anche sul fronte degli enigmi, la situazione non è migliore rispetto al combattimento. Sebbene gli sviluppatori abbiano tentato di renderli unici, il risultato è solo parzialmente riuscito. In generale sono pochi e piuttosto semplici. Tuttavia, in alcuni momenti la loro logica può risultare contorta, portando ad errori e frustrazione. Le istruzioni non sono sempre chiare, e anche se si capisce il principio di base, si rischia di interpretare male gli indizi. Nonostante queste criticità, il gioco include alcuni enigmi che ho particolarmente apprezzato per la capacità d’inserirli perfettamente nella trama.

La mia prima partita è durata poco più di 12 ore, sebbene il contatore di gioco non calcoli il tempo perso tra morti e menu, ma per sbloccare tutte le rivelazioni della trama ne serviranno almeno il triplo. In definitiva, Silent Hill f è stata un’esperienza spiazzante, capace di suscitare interrogativi e di rimandare le risposte per ore, nascondendole nel diario che Hinako compila automaticamente. Il gioco offre diverse opzioni di difficoltà, anche se inizialmente si può scegliere solo tra due, con selezioni differenti per enigmi e combattimento.

Se entrambe le modalità per gli enigmi sono ben realizzate, per il combattimento sconsiglio vivamente la modalità storia, in grado di annientare la tensione del gioco con nemici che infliggono danni minimi e con un consumo di stamina per le schivate talmente ridotto da permettervi di muovervi senza mai essere colpiti. Il gioco è doppiato in inglese e giapponese, con sottotitoli in italiano. Ho trovato il doppiaggio giapponese di gran lunga più incisivo di quello inglese, che sebbene di buon livello, risulta meno intenso.



Combinando un’estetica avvincente con una realizzazione tecnica di primo piano, Silent Hill f presenta sia luci che ombre, ma nel complesso si rivela un’esperienza assolutamente da consigliare e che vi rimarrà impressa a lungo. Dato che l’aspetto narrativo è preponderante, ho preferito limitarmi a darvi il contorno, senza mai entrare nei dettagli. Vivete l’avventura e fate vostre le domande: le risposte arriveranno, in un modo o nell’altro, e state certi che non dimenticherete la chiusura del cerchio. Tenete presente che il gusto è estremamente orientale: il ritmo è lento, si tratta di uno “slow burning” in cui gli eventi importanti non vengono urlati, ma spesso appena sussurrati. Dovrete coltivare la curiosità per ogni singolo dettaglio. Questo gioco è la perfetta manifestazione videoludica di quella filosofia giapponese che valorizza la semplicità, l’armonia e la cura, rendendo ogni piccolo gesto significativo e ricco di senso. Silent hill f è l’incarnazione del concetto di Wabi-sabi, che apprezza la bellezza nell’imperfezione e nella semplicità.


 

Provengo da un’epoca particolare, in cui le edicole vendevano videogames e le sale giochi erano giungle urbane abitate da creature stravaganti. Si sognava per mesi (o anni) su una singola immagine vista su rivista, si attraversavano quartieri interi per noleggiare un gioco sperando che fosse ancora lì, pronto ad accoglierci per un’avventura irripetibile. Il marketing si faceva per strada, la console war si combatteva faccia a faccia, e il venditore era una creatura leggendaria. Un mondo folle e ingenuo, forse, ma proprio per questo indimenticabile.