Keeper Recensione: l’effluvio salmastro dell’inaspettato

C’è una sensazione che ogni appassionato di avventure grafiche, cresciuto tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90, porta cucita addosso quando sente nominare Tim Schafer: l’attesa per il suo prossimo progetto e la curiosità di scoprire quali altre idee sarà capace di influenzare con il suo particolarissimo tocco. Dopo aver lasciato il nido dorato di LucasArts, dove aveva lavorato su capolavori immortali come la progettazione dei primi due capitoli di The Secret of Monkey Island e Day of the Tentacle, il seguito di Maniac Mansion, nonché la direzione creativa di pietre miliari quali Full Throttle (1995) e l’acclamato Grim Fandango (1998), Schafer sentì il richiamo della piena indipendenza creativa.

La fondazione di Double Fine Productions avvenne nel 2000, battezzata dalla celebre insegna esposta sul Golden Gate Bridge che indica l’inizio di una zona nella quale le multe per infrazione sono raddoppiate, vicina agli uffici LucasArts presso cui il designer lavorava. Il nome lo conquistò immediatamente e, malgrado sperasse di utilizzarlo per una band che fin da giovane sognava di avviare, come lui stesso spiega sul sito ufficiale della software house quest’ultima era la seconda migliore ipotesi. Un banale monito divenne perciò un appellativo intrigante, enigmatico e pervaso da quel pizzico di follia perfettamente in linea con lo spirito dello studio che stava nascendo.

Sin dall’inizio, l’obiettivo di Double Fine non fu mai quello di inseguire i trend del momento, ma dare forma a visioni bizzarre, spaziando dall’epopea heavy metal di Brütal Legend al campo estivo per sensitivi in Psychonauts. Spesso, però, la grandezza delle idee ha superato le rispettive esecuzioni, e la storia della compagnia è stata caratterizzata da una marcata discordanza tra il plauso per l’originalità degli approcci adottati e gli scarsi riscontri commerciali, per quanto le iniziative intraprese abbiano sovente lasciato un segno tangibile: ad esempio, il successo della campagna Kickstarter per Broken Age, inaugurata nel 2012 con il titolo di Double Fine Adventure, ha avuto un impatto trasformativo sull’industria, legittimando il crowdsourcing come un modello di finanziamento alternativo e credibile che consente di eludere il controllo potenzialmente intrusivo degli editori, quantomeno per progetti di dimensioni moderate.

Il punto di svolta per la compagnia, che in tanti abbiamo temuto potesse rappresentare anche il crepuscolo del fenomenale estro che da sempre l’ha caratterizzata, è arrivato con l’acquisizione da parte di Microsoft. Invece, come spesso accade con gli artisti genuini, è successo l’opposto: liberati dall’ossessivo bisogno di dover vendere milioni di copie grazie al paracadute di Xbox Game Studios e del Game Pass, Schafer e il suo team hanno trovato la libertà di spingersi ancora più in là, abbracciando una filosofia di design completamente inedita ma non del tutto estranea al loro storico modus operandi. Keeper non costituisce pertanto un gioco qualsiasi, ma un autentico manifesto di questa ritrovata audacia e del novello approccio sperimentale che hanno deciso di perseguire. Però…

Keeper
Un mondo bizzarro e serafico che sembra uscito da un dipinto surrealista

Keeper: l’estetica del sognatore taciturno

Il viaggio assume le sembianze di una fiaba onirica in cui il protagonista è un’entità solitaria e improbabile, un vecchio faro che prende vita e inizia a spostarsi dal promontorio che lo ospitava su gambe composte da radici e metallo contorto, mosso da una forza primordiale che neanche lui sembra comprendere bene. La scelta più radicale è quella di implementare un concreto racconto per immagini, suggerito o mostrato indirettamente tramite l’ambiente, gli oggetti, la disposizione spaziale e le tracce presenti. Le distanze, i paesaggi e l’estetica diventano così strumenti narrativi, mentre il legame tra il faro e il suo minuscolo (relativamente parlando) e fedele compagno volatile, Ramoscello, che contribuisce al bizzarro “risveglio” del primo, si costruisce solo attraverso il movimento e la condivisione della strada percorsa insieme. Il direttore creativo Lee Petty ha più volte ribadito che uno dei cardini imprescindibili del progetto è stato proprio quello di permettere al giocatore di prendersi il proprio tempo, rasserenare lo spirito e accogliere l’inaspettato nel corso di una traversata bislacca e appagante, priva dell’eventualità di poter morire e spezzare in tal modo l’immedesimazione.

Anche se l’anima di Keeper è silenziosa, il suo corpo è incredibilmente loquace, con lo stile visivo a simboleggiarne la luminosa stella polare: il fascino esercitato dal mondo in cui veniamo catapultati è sbalorditivo, come se le menti di Tim Burton, John Carpenter e David Lynch avessero lavorato in concerto per confezionare un personalissimo adattamento de La Storia Infinita di Michael Ende. L’ispirazione del team guidato da Petty non si ferma a Salvador Dalí, ma richiama la complessità simbolica di Hieronymus Bosch e le giustapposizioni paradossali di René Magritte. Una simile, quasi maniacale attenzione nei confronti dell’estetica garantisce che il gioco sia, prima di tutto, un’esperienza contemplativa, esperienza che, tuttavia, si avvicina di più a un giro sulle attrazioni tematiche di un luna park piuttosto che a quella offerta da altri analoghi imperniati sulla libera esplorazione, un circuito dove l’obiettivo è godersi il momento senza porsi domande sulla coerenza narrativa, immersi in un ambito al contempo alieno e familiare che solletica i sensi.

Keeper
Buona parte delle meccaniche più interessanti viene dimenticata dopo aver assolto il proprio scopo

Quando l’essenziale è visibile agli occhi

A differenza della maggior parte dei titoli che richiedono di padroneggiare un set di regole e sistemi mediante lunghi tutorial, Keeper ci invita a scoprire le sue meccaniche con l’applicazione delle stesse. Il gameplay è intenzionalmente leggero e non punitivo, una direzione che promuove in teoria la semplicità, la frugalità e l’estromissione del superfluo. In sostanza, il team di sviluppo ha limitato gli elementi interattivi e ridotto la responsabilità delle azioni a nostro carico per raggiungere un risultato più efficace, di maggior impatto, elegante e funzionale.

Si tratta di formula ludica assolutamente vincente nel walking-sim o nei giochi mediamente più ascetici, come dimostrato in modo magistrale da progetti quali Journey o Abzû dove la limitata agenzia concessa al giocatore viene ripagata da una coesione tematica, una progressione emotiva e una focalizzazione del game design che rendono ogni piccolo gesto significativo. In altre parole, l’esperienza complessiva funziona perché il gameplay minimalista costringe il giocatore a concentrarsi sul significato e sull’estetica.

Viceversa, il peccato capitale di Keeper risiede proprio nella sua incapacità di capitalizzare su cotanta morigeratezza. La ristretta operatività, basata solo sul movimento e sul fascio di luce da direzionare correttamente, dovrebbe convogliare tutta l’attenzione sull’ambiente e sulla storia. Invece, Keeper purtroppo finisce per relegare il giocatore quasi al ruolo di semplice spettatore, e non per virtù del design che punta all’essenziale, ma per l’inconsistenza ludica delle circostanze in cui ci trascina.

L’intera avventura avrebbe tratto enormi vantaggi se avesse preservato la medesima struttura iniziale fino in fondo, con una maggiore enfasi sull’esplorazione e sulla risoluzione di enigmi basata su un ventaglio di meccaniche ben definite e in graduale evoluzione. Invece, assistiamo a una rapida e incontrovertibile spirale discendente in termini di design a causa della volontà, che diviene quasi ossessione, di continuare a proporre sempre qualcosa di nuovo, tralasciando quanto costruito in precedenza.

Il problema principale risiede nell’impressione che i cambiamenti siano introdotti a forza per il puro gusto di variare, senza una logica efficace a supporto. Laddove un titolo come The Witness costruisce un linguaggio di simboli congruo e universale per l’esplorazione e il ragionamento, Keeper preferisce l’effetto sorpresa di una trovata ingegnosa e appariscente, da accantonare subito dopo. Le diverse meccaniche presentate hanno un ciclo vitale brevissimo, con poche fortunate che beneficiano di un paio di reiterazioni prima di scomparire nel nulla, un aspetto che incrina pericolosamente il pilastro sul quale andrebbero edificati l’impegno mentale e la soddisfazione del giocatore.

Keeper
Gli scenari lussureggianti sono un risvolto estremamente positivo della libertà creativa di cui Double Fine può avvalersi

Le implicazioni del bilancio creativo di Keeper

Malgrado l’elogio alla sua unicità estetica e narrativa, Keeper viene preceduto da un’ombra che ha accompagnato molte opere firmate Double Fine: una disparità eccessiva tra pensiero e sostanza. La produzione assume a più riprese i contorni di un puro esercizio di stile, privo di conformità interna. L’immenso potenziale insito nell’universo visivo e tematico di Keeper si rivela, infatti, un fondamento sprecato con approssimazione, che si è malauguratamente tradotto nel rimpianto per quello che avrebbe potuto essere mentre giocavo.

La questione non è tanto che le regole intrinseche del mondo vengano violate, poiché spesso un criterio distruttivo può giocare a favore della completezza, ma che la loro funzionalità non venga mai approfondita dal fruitore attraverso l’interazione. Questa dinamica così effimera si ripete sistematicamente: elementi metodici di grande fascino e impatto ludico vengono inseriti con enfasi per poi cedere il passo al successivo divertissement, senza mai giovare di uno sviluppo organico nel contesto d’insieme.

Un esempio emblematico è la manipolazione del continuum temporale: in alcune sezioni esplorative, la luce del faro si dimostra capace di influenzare lo scorrere del tempo, al punto da poter trasformare Ramoscello in un uovo o in un’entità spirituale per consentirgli di accedere a diverse zone che fanno parte del medesimo enigma. Una meccanica così ricca di implicazioni concettuali e ricreative viene poi completamente dismessa e mai più menzionata, a testimonianza del discutibile paradigma di progressione che permea l’intera esperienza di gioco.

Inoltre, lo svolgimento muta inaspettatamente forma in svariati punti cruciali, sovvertendo il gameplay con dinamiche completamente difformi che suggeriscono un’integrazione mirata ad ampliare il tempo di gioco che ci separa dal finale, piuttosto che a perseguire un’evoluzione uniforme. Tali integrazioni, in particolar modo quelle che abbracciano sentieri più vasti e meno direzionati, culminano talvolta in una ricerca guidata dalla mera casualità, scevra di logica o scopo apparente, costringendoci spesso a interagire a casaccio nella speranza di un evento risolutivo, oppure proponendo una ripetizione di compiti tediosi che rendono la ricercatezza scenografica quasi un dettaglio secondario. Oltrepassata la metà della sua durata, il titolo continua a trasformarsi rapidamente e ripetutamente, trascinandosi verso il finale come un’accozzaglia disorganica di meccaniche distinte, quasi una successione di piacevoli ma asettiche sezioni di un tie-in multievento, anziché l’espressione unanime di una visione completa e implementata con meticolosa profondità.

I segreti da svelare portano alla luce qualche scampolo del tragico passato che ha funestato il mondo di gioco

Genio, sregolatezza e lucidità

Al di là del gioco in sé, Keeper segna un momento fondamentale per l’industria, dimostrazione lampante di come il modello Game Pass possa fungere da incubatore per la creatività più azzardata. Double Fine, un tempo vascello ardimentoso che navigava in acque agitate, ora veleggia sotto una bandiera che le permette di esplorare rotte completamente inesplorate, libera dalle pressioni asfissianti del mercato.

Tale emancipazione incondizionata rappresenta la genuina vittoria di Keeper e dello studio che l’ha realizzato, che può ora permettersi, almeno sulla carta, di mettere alla prova le proprie idee, sbagliare e ritentare senza il rischio del fallimento finanziario. Per noi giocatori, significa un’oasi di singolarità in un mercato sempre più omologato, pertanto il mio più sentito auspicio è che, forte di questo nuovo e robusto sostegno, la prossima fase di Double Fine possa finalmente vedere la loro straordinaria creatività estetica e narrativa andare a braccetto con un game design non convenzionale ma più robusto e validato.

Nondimeno, è impossibile ignorare lo stato attuale del settore: la sequenza incessante di licenziamenti di massa che ha colpito l’industria videoludica globale, con Microsoft ai primi posti di questa tragica classifica, getta un’ombra significativa anche su realtà apparentemente protette. In un contesto in cui persino i grandi colossi riorganizzano e ridimensionano le loro divisioni in cerca di maggiore efficienza e rendimento immediato, lo spazio per la sperimentazione pura, anche all’interno di un’entità acquisita come Double Fine, non è mai garantito. La fiducia riposta in Schafer e il suo team da parte di Xbox Game Studio è immensa ma, in un clima economico così volatile, la necessità di dimostrare un valore tanto artistico quanto strategico e remunerativo rimane un’incognita sostanziale che potrebbe, in futuro, porre nuovi limiti, o per lo meno delle aspettative più rigide, sulla loro indomita concezione dell’arte videoludica. La speranza è dunque che l’approccio di Keeper, sebbene acerbo, sia sufficiente a sostenere la perlustrazione di rotte inesplorate senza l’imposizione di un eccessivo rigore aziendale.


Keeper è un trionfo di fantasia artistica e audacia empirica che eleva l’avventura contemplativa a una forma espressiva surreale. La sua bellezza senza pari e l’intrinseca natura dicotomica tra quiete ed eccentricità lo trasformano in un viaggio onirico e peculiare. Tuttavia, il gameplay elementare, spesso contraddittorio e prolungato artificialmente, spreca il potenziale del suo stesso approccio e sottovaluta in parte gli sforzi necessari per distillare essenza e funzionalità. La circoscritta interazione concessa al giocatore non viene ripagata da una coerenza o una narrativa ambientale sufficientemente forti, degradando l’esperienza a una passeggiata visivamente splendida ma ludicamente inefficace. È il primo, coraggioso passo del nuovo, strano, promettente capitolo di Double Fine, che purtroppo finisce per inciampare sul desiderio di stupire a tutti i costi.


 

Gioca da quando ha messo per la prima volta gli occhi sul suo Commodore 64 e da allora fa poco altro, nonostante porti avanti un lavoro di facciata per procurarsi il cibo. Per lui i giochi si dividono in due grandi categorie: belli e brutti. Prima che iniziasse a sfogliare le riviste del settore erano tutti belli, in realtà, poi gli è stato insegnato che non poteva divertirsi anche con certe ciofeche invereconde. A quel punto, ha smesso di leggere.