Citizen Pain Recensione: quando l’ambizione incontra il dolore… e ogni errore si paga caro!

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Nel mare magnum dell’indie moderno capita spesso di vedere giochi che cercano disperatamente un tratto distintivo: l’idea bizzarra, la nostalgia anni ’90, la feature “mai vista prima” da piazzare in un tweet. Molto più raro è imbattersi in un progetto in cui si avverte una visione chiara, quasi ostinata, che non ha paura di essere scomoda e di farsi odiare tanto quanto farsi amare. Citizen Pain rientra esattamente in questa categoria: un action-melee in prima persona, cupo, punitivo e sorprendentemente identitario, sviluppato, cosa non da poco, da una sola persona: l’italiano Alessandro Capriolo, sviluppatore attualmente in forza a Nixxes Software, lo studio olandese di proprietà Sony responsabile dei porting PC di giochi come Spider-Man 2, Ratchet & Clank Rift Apart, Helldivers 2. Ho giocato la versione completa su PC via Steam, e ne è uscito il ritratto di un’opera che vive in equilibrio instabile tra intuizioni brillanti e limiti evidenti, tra colpi di classe e colpi a vuoto. A volte il dolore lo provano i nemici, a volte lo prova il giocatore… ma il titolo, questo, lo prometteva fin dal nome. Il gioco è disponibile dal 5 dicembre 2025 su Steam.

Catherina, la nostra impavida protagonista

Un viaggio dark-fantasy dal cuore ferocemente indie

La premessa narrativa è essenziale, quasi archetipica. Nei panni di Catherina, guerriera solitaria, ci si avventura in terre maledette alla ricerca del Re Non-morto che domina il mondo di gioco come una presenza lontana, ma opprimente. Non ci sono lunghi dialoghi, non ci sono lunghi monologhi interiori: Citizen Pain non punta al romanzo, punta al tono. Il gioco preferisce suggerire piuttosto che spiegare. Le informazioni emergono dall’ambiente, dai ruderi, dalle architetture, dai piccoli dettagli disseminati negli scenari. È una scelta che richiama i soulslike più introspettivi, ma su scala ridotta: niente open-world interconnesso, bensì una progressione più lineare, quasi da dungeon-crawler, che però si sposa bene con il tipo di combattimento proposto. L’atmosfera è il primo vero successo del gioco. Non è un titolo “bello” in senso canonico, non ha la pulizia patinata dei tripla A, ma trasmette una sensazione costante di decadenza: rovine avvolte dalla nebbia, torri spezzate, cortili vuoti che sembrano abbandonati da secoli. Sfruttando UE5 con intelligenza, Citizen Pain trasforma budget limitato e risorse ridotte in una sorta di scelta stilistica: più sporco, più ruvido, ma coerente.

Catherina e Wolf in azione

Il vero cuore di Citizen Pain: colpire, schivare, soffrire!

Qui non si scappa: se Citizen Pain ha qualcosa da dire, lo dice nel combat system. È un gioco che vuole essere difficile, e non per moda. Ogni animazione ha un peso, ogni colpo ha un tempo di recupero, ogni finestra d’attacco sbagliata è un potenziale viaggio di sola andata verso la schermata di morte. La prospettiva in prima persona aumenta la tensione: la visibilità è limitata, i nemici ti arrivano addosso occupando l’intero campo visivo, e non c’è spazio per il “button mashing”. Chi entra sperando in un hack & slash permissivo viene rispedito al checkpoint nel giro di pochi secondi.

Il sistema di combattimento si basa su pochi concetti, ma chiari: attacchi con peso e inerzia, necessità di leggere i movimenti del nemico, gestione attenta di posizionamento e tempistiche e una difficoltà che non concede molti errori. Quando si sbaglia, si sente. Quando si indovina una schivata o si incastra la sequenza giusta, si sente ancora di più. Il feedback dei colpi è uno degli aspetti più riusciti: anche senza animazioni da produzione miliardaria, ogni fendete “suona” giusto, restituendo una fisicità notevole. Dall’altro lato della medaglia ci sono le inevitabili spigolosità. La gestione delle hitbox e della telecamera non è ancora sempre affidabile: capita che un colpo sembri mancare il bersaglio quando visivamente lo attraversa, o che si venga colpiti da un fendente che pare partito “un po’ di lato”. Sono difetti comuni in progetti in prima persona, ma che in un gioco dove la difficoltà è così alta rischiano di creare frustrazione extra. Niente di irrimediabile, ma è il classico ambito dove una passata di rifinitura può cambiare tantissimo la percezione complessiva.

L’impressione costante, esplorando le aree del gioco, è che il mondo di Citizen Pain non abbia alcuna voglia di essere esplorato. E lo comunica benissimo. La palette cromatica è spenta, quasi anemica: grigi, verdi marci, toni smorzati. Non c’è conforto visivo, non c’è sollievo. Solo pietra, ombra e uno sporco che sembra depositato da secoli. Le mappe non sono grandi, ma sono progettate con attenzione per convogliare il giocatore verso scontri mirati: corridoi stretti che limitano la mobilità, piazzali chiusi in cui è impossibile evitare il contatto, passaggi che al primo colpo d’occhio non sono subito leggibili. Citizen Pain non vuole essere un parco giochi, vuole essere un campo di battaglia. Le influenze sono riconoscibili: un po’ di Morrowind nell’aria malata e nelle strutture, qualcosa dei vecchi titoli id Software nella solidità delle geometrie, qualche eco dei Resident Evil moderni per quanto riguarda la tensione e la gestione degli spazi. Niente di derivativo in senso negativo: più un linguaggio condiviso, filtrato però da una sensibilità molto personale.

Una buona lettura dei movimenti dei nemici e attenzione può evitare qualche morte di troppo

Audio minimalista, ma sorprendentemente efficace e grafica solida con qualche ombra

In un gioco del genere l’audio è quasi più importante della grafica, e Citizen Pain lo sa. Il comparto sonoro, pur senza strafare, è uno dei pilastri dell’atmosfera. I colpi suonano secchi e convincenti; i passi, le armature, gli urti sulle superfici in pietra contribuiscono a dare peso a ogni movimento. I suoni ambientali riempiono gli spazi senza sovraccaricarli: scricchiolii, echi, qualche verso lontano che ti fa venire voglia di non girare l’angolo. La musica lascia spesso spazio al silenzio o quasi, scelta che rende ogni suono diegetico molto più presente e minaccioso. Non si tratta certo di un audio da blockbuster, ma in rapporto alla scala del progetto è un lavoro davvero rispettabile, che sostiene e amplifica la direzione artistica.

Su una configurazione PC di fascia medio-alta (Intel I5,RTX 4060 Ti,16 GB Ram), Citizen Pain si comporta davvero bene: il frame rate è stabile, i caricamenti sono velocissimi, e quando l’ho giocato non ho notato nessun crash o bug critico. Ci sono ancora aspetti migliorabili, soprattutto nella gestione di alcune texture e dell’illuminazione in determinate zone, dove le ombre risultano un po’ troppo nette e “dure”. Ma si parla di dettagli che non minano la fruibilità generale. Per essere una build descritta come non definitiva di un progetto solitario, il quadro tecnico è più che incoraggiante.

L’esplorazione di questo mondo non sa da fare

Citizen Pain: una filosofia “se morite è colpa vostra”

Citizen Pain non cerca di essere amichevole. Non vi accompagna, non vi consola, non vi mette mai davvero a vostroagio. La difficoltà non è un optional: è il fulcro dell’esperienza. Si muore spesso. Si muore per non aver letto bene un attacco, per aver esagerato con un colpo pesante, per essersi fatti accerchiare, per aver sopravvalutato le proprie capacità. Quando le hitbox collaborano e il gioco reagisce esattamente come dovrebbe, l’approccio “se morite è colpa vostra” funziona alla grande: imparate, migliorate, vi adattate. Quando invece entrano in gioco i difetti tecnici (colpo “fantasma”, nemico che vi raggiunge da fuori campo visivo senza un adeguato segnale), il confine tra difficoltà voluta e frustrazione involontaria tende a sfumare. È qui che il gioco dovrà lavorare di più: preservare la durezza come marchio di fabbrica, ma limare quelle asperità che trasformano un fallimento meritato in una morte “ingiusta”.

Il roster di nemici è particolarmente mirato. Ogni tipo di avversario vi “insegna” qualcosa di specifico: lo scudiero che costringe a giocare attorno alla guardia, il nemico più rapido che punisce l’over-commit, l’unità che attacca in modo irregolare e rompe il ritmo. Il boss incontrato conferma la filosofia del progetto: pattern che vanno studiati, movimenti elaborati, ritmo serrato. La telecamera in prima persona rende lo scontro più caotico di quanto sarebbe in terza, ma è chiaro che l’intenzione è quella di innescare memoria muscolare e concentrazione, non di regalare un combattimento-spettacolo puramente estetico. Non sempre l’esecuzione è perfetta, soprattutto nelle situazioni più ravvicinate, ma il disegno dietro gli scontri è chiaro e promettente.

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Citizen Pain è uno di quei progetti che non si dimenticano facilmente (con orgoglio nazionale), anche se non sono (ancora) dei capolavori. Ha anima, carattere, testardaggine. È un gioco che preferisce essere spigoloso e divisivo piuttosto che anonimo e accomodante. E questo, nel panorama indie saturo di prodotti intercambiabili, è già un valore enorme. Giocandolo, il titolo mostra un potenziale concreto, con ottime idee nel combattimento, una forte coerenza estetica e una difficoltà che, quando non è sabotata da qualche imprecisione tecnica, sa regalare momenti di autentica esaltazione. Allo stesso tempo, però, il gioco mette in luce limiti chiari: animazioni rigide, telecamera da domare, hitbox da ripulire, struttura ancora un po’ troppo essenziale. È un gioco interessante? Sì. È già un gioco compiuto? No, non ancora. È un progetto da tenere d’occhio? Decisamente sì. Se successivamente Citizen Pain riuscirà a trasformare il suo dolore in disciplina, limando senza snaturare, potremmo ritrovarci davanti a un piccolo cult per chi ama gli action feroci e senza compromessi. Per ora, la sensazione è quella di un titolo che ti prende a schiaffi… ma almeno lo fa con convinzione. Citizen Pain è un action dark-fantasy in prima persona con grandi ambizioni e un’identità fortissima. Atmosferico, duro e affascinante, ma ancora troppo grezzo per fare il salto di qualità definitivo. Da seguire con attenzione: il potenziale c’è, e non è affatto poco!