Horses Recensione: l’incubo rurale tra citazionismo e carne umana

Nel panorama frastagliato, spesso derivativo e talvolta autocompiaciuto del videogioco indipendente italiano, Horses si è presentato al pubblico e alla critica non tanto come un semplice software d’intrattenimento, quanto come un vero e proprio “evento” mediatico, un monolite nero piantato nel mezzo della discussione pubblica ancor prima del suo rilascio ufficiale. Sviluppato da Santa Ragione, il collettivo milanese già autore di perle sperimentali come Saturnalia, Fotonica e MirrorMoon EP , e nato dalla visione intransigente del game designer e regista Andrea Lucco Borlera, il titolo ha saputo catalizzare l’attenzione globale non grazie a trailer milionari, ma attraverso una campagna comunicativa fatta di silenzi, immagini criptiche e, soprattutto, a causa del clamoroso ban ricevuto da piattaforme egemoni come Steam ed Epic Games Store. Tuttavia, ora che il polverone delle polemiche social, delle petizioni e dell’hype costruito ad arte si è posato, è giunto il momento di un’operazione necessaria: l’analisi a sangue freddo. Dobbiamo spogliare Horses dalle sovrastrutture intellettuali, dalle difese d’ufficio della “libertà d’espressione” e guardarlo per quello che è nella sua essenza binaria di codice e interazione: un esperimento di folk horror rurale che tenta di essere radicale, ma che spesso sacrifica la giocabilità sull’altare di un autorialismo talvolta eccessivo. Con la tastiera pronta a seminare “wasd” ci troviamo di fronte a un’esperienza che affascina quanto frustra, un titolo che vorrebbe essere un incubo interattivo ma che spesso si rivela un esercizio di pazienza per il giocatore, costretto a lottare più con i controlli legnosi che con i demoni della fattoria. Questa è la disamina definitiva di un’opera che, nel bene e nel male, segnerà l’annata videoludica italiana. Prima di varcare la soglia della cascina, è impossibile ignorare l’elefante nella stanza, o meglio, il cavallo. La decisione di Valve ed Epic di rifiutare la distribuzione di Horses ha creato un precedente pericoloso e affascinante.

Le motivazioni ufficiali sono rimaste vaghe, trincerate dietro generiche violazioni delle linee guida sui contenuti, ma è palese che il mix di nudità non sessualizzata, violenza implicita e temi disturbanti abbia mandato in tilt i revisori americani, abituati a gestire la violenza iperrealista ma codificata degli shooter, e del tutto impreparati di fronte all’orrore psicologico d’autore. Questo ostracismo digitale ha trasformato Horses in un frutto proibito, spingendo il titolo in cima alle classifiche di GOG e Itch.io, piattaforme che hanno accolto l’opera come bandiera di una libertà creativa necessaria. Ma questo contesto influenza la percezione del gioco? Assolutamente sì. Chi avvia Horses oggi non è un giocatore casuale; è un utente consapevole, che si aspetta di essere scioccato, che cerca il confine. E Santa Ragione, con una lucidità quasi crudele, gioca con questa aspettativa, offrendo non lo shock facile del jumpscare, ma il logorio lento di un’atmosfera irrespirabile.

Se sono cavalli si possono cavalcare, giusto?     

L’Ouverture programmatica: Bambi, Godzilla e la carne tremolante

Appena avviato il gioco, dopo i loghi istituzionali, veniamo accolti da una citazione che ho apprezzato sinceramente per la sua lucidità: il riferimento a Bambi Meets Godzilla. La scelta di richiamare il cortometraggio cult del 1969 di Marv Newland non è un semplice vezzo citazionista, ma una dichiarazione d’intenti programmatica, una chiave di lettura indispensabile per decodificare le tre ore successive. Nel corto originale, vediamo il piccolo Bambi brucare serenamente l’erba sulle note del “Guglielmo Tell”, in un quadretto di innocenza bucolica assoluta. Poi, senza preavviso, senza musica drammatica, la zampa gigante di Godzilla scende dall’alto e lo schiaccia. Titoli di coda. Fine. In Horses, il principio è identico: la normalità agricola, fatta di gesti lenti e ripetitivi, viene annichilita da una forza grottesca e insensata. Non c’è una “boss fight” da vincere, non c’è un eroe che sconfigge il mostro. C’è solo l’ineluttabilità dello schiacciamento. Questa citazione ci introduce alla lore del gioco: non esiste salvezza, non esiste eroismo, esiste solo la catena alimentare. Siamo insetti sotto la suola di un gigante invisibile. La trama ci cala nei panni di Anselmo, un ventenne italiano di buona famiglia, mandato dai genitori in una remota cascina di campagna per trascorrere l’estate lavorando. L’obiettivo dichiarato è quello di “farsi le ossa”, di forgiare il carattere lontano dalle comodità della vita urbana. È un incipit che richiama topoi letterari classici, dal romanzo di formazione ottocentesco fino alle derive più oscure del neorealismo. Ma la cascina dove approda Anselmo non è un luogo di crescita. È un non-luogo fuori dal tempo, che profuma di cemento umido, diserbante e segreti inconfessabili.

Non ci vengono fornite coordinate geografiche precise, ma l’architettura, la vegetazione e la luce suggeriscono una Pianura Padana distorta, un “Gothic Padano” dove la nebbia nasconde più di quanto riveli. Ad accoglierci c’è il Fattore, una figura autoritaria, paterna e minacciosa, che parla per aforismi e ordini secchi. La sua autorità è assoluta, indiscutibile, quasi divina. Il nostro compito appare inizialmente banale: prenderci cura della tenuta e degli animali. Ma ben presto, con una naturalezza che gela il sangue, scopriamo che la fattoria non ospita bestiame comune. I “cavalli” di cui dobbiamo occuparci, che dobbiamo strigliare, nutrire e portare al pascolo, sono esseri umani nudi, uomini e donne con maschere equine in lattice o cuoio grottescamente fissate al volto, ridotti a bestie da soma. Non parlano, non chiedono pietà; emettono solo versi strozzati, nitriti distorti e respiri affannosi. Camminano carponi o su due gambe con andature spezzate, la pelle livida esposta alle intemperie e agli insetti. A completare questo presepe degli orrori c’è il “cane” da guardia, Fido, un altro essere umano mascherato e incatenato a una cuccia, che abbaia furiosamente e viene trattato con la stessa brutale indifferenza. Il gioco non ci spiega chi siano queste persone. Sono prigionieri? Sono volontari in un gioco di ruolo estremo finito male? Sono esperimenti genetici? La forza di Horses sta nel non rispondere mai. La normalizzazione dell’orrore è totale: Anselmo non urla, non scappa. Accetta. E noi con lui. Il giocatore è costretto a diventare complice, eseguendo mansioni che vanno dal nutrire queste creature con un pastone nauseabondo al medicare le loro ferite, causate dalle frustate del Fattore ,versando acqua ossigenata sulla carne viva, il tutto rappresentato con una grafica sgranata che sfuma i dettagli genitali ma amplifica il disagio psicologico.

Ma esattamente cosa stiamo mangiando , carne di…?

L’Estetica del Dolore: la tirannia del bianco e nero

L’impatto visivo di Horses è una violenza retinica deliberata. Tecnicamente, il motore Unity viene piegato e torturato per restituire una direzione artistica in bianco e nero ad altissimo contrasto (High Contrast 1-bit style), ottenuta tramite l’uso massiccio di shader post-processing. Gli sviluppatori applicano filtri di soglia che eliminano quasi del tutto le scale di grigi, lasciando spesso solo il bianco accecante e il nero assoluto, divorando i dettagli nelle ombre. L’intento artistico è chiaro: simulare un rotoscoping degradato, sporco, come se il mondo fosse visto attraverso una telecamera di sorveglianza guasta, un vecchio filmato snuff ritrovato in una cantina umida o una fotocopia venuta male di un incubo. Questa scelta, unita all’uso di sequenze in Live Action (FMV) integrate nel flusso di gioco per i primi piani e i dettagli, crea un effetto straniante potentissimo. I volti umani reali si mescolano ai modelli poligonali low-poly, creando una dissonanza cognitiva che richiama il cinema sperimentale di Begotten o le opere di David Lynch. Tuttavia, se artisticamente questa scelta crea un’atmosfera opprimente e unica, trasformando la cascina in un luogo alieno, tecnicamente rappresenta il primo grande scoglio per la fruibilità del titolo. La leggibilità della scena è costantemente compromessa. Il dithering eccessivo e il “noise” visivo rendono spesso impossibile decifrare la profondità di campo. Capire dove finisce un muro e dove inizia un passaggio, distinguere un oggetto interattivo da un elemento di sfondo, diventa un terno al lotto che alla lunga non genera paura, ma stanchezza oculare e frustrazione. Le animazioni, inoltre, mostrano il fianco a critiche severe: i modelli si muovono con un frame-rate ridotto creando un efficace effetto Uncanny Valley, ma tecnicamente si notano gravi problemi di blending. I passaggi tra le animazioni sono privi di interpolazione fluida, causando scatti visivi (pop-in) e l’effetto di “pattinamento” (foot-sliding) dei personaggi che rompe l’immersione brutale che il gioco cerca faticosamente di costruire. Sotto il cofano estetico, Horses è strutturalmente un’avventura in prima persona che destruttura e parodia i simulatori agricoli o i cosiddetti “walking simulator”. Il gameplay loop è volutamente tedioso, ripetitivo, faticoso. Dobbiamo trascinare secchi pesanti, attivare leve arrugginite, spostare balle di fieno, raccogliere verdure nell’orto pixel per pixel.

Tuttavia, il game design sembra costruito non per sfidare l’utente, ma per punirlo attraverso un’interfaccia invisibile e ostile. I controlli sono pesanti, con un input lag che sembra quasi simulato (o forse solo mal ottimizzato, il dubbio rimane) che rende ogni movimento una fatica sisifica. Girare la visuale, mirare a un oggetto, camminare: tutto richiede uno sforzo cosciente, trasmettendo la riluttanza fisica e psicologica di Anselmo. Il sistema di collisioni è il vero tallone d’Achille tecnico: le hitbox sono sballate, imprecise, portando il giocatore a incastrarsi in spigoli invisibili o a non riuscire ad attivare un trigger palese. L’interazione con gli elementi sensibili è demandata a un puntatore impreciso, costringendo a cliccare a vuoto più volte. Qui bisogna tracciare una linea netta tra l’Hostile Design (difficoltà narrativa intenzionale, come in Pathologic) e la frustrazione da cattiva programmazione. Horses attraversa spesso questo confine a sfavore del giocatore: il backtracking è reso tedioso dalla lentezza esasperante del protagonista e l’assenza di feedback chiari trasforma l’esplorazione in un vagare a tentoni che genera noia, minando la tensione accumulata. La routine dei 14 giorni non è solo un meccanismo ludico, ma narrativo. Più passano i giorni, più le richieste del Fattore diventano sadiche e assurde. Dalla semplice pulizia si passa alla sepoltura di cadaveri, alla punizione fisica dei “cavalli” tramite frustini o privazione di cibo, fino all’assistenza in rituali grotteschi dove il confine tra uomo e bestia viene definitivamente abbattuto. C’è una scena in particolare, che coinvolge il Fattore e il “cane”, che suggerisce abusi sessuali e violenze indicibili lasciate all’immaginazione tramite l’uso sapiente del fuoricampo e del sonoro, un momento in cui il gioco chiede allo stomaco del giocatore di farsi di ghisa.

Cineforum con i cavalli che guardano i cavalli, sì è un sogno.

Horses: l’audio come Strumento di Tortura

Dove il titolo eccelle, quasi riscattando le sue manchevolezze tecniche, è nel comparto audio. Il sound design è magistrale. Non c’è musica nel senso tradizionale, se non rari accenni distorti. Il soundscape è un tappeto industriale di ronzii elettrici, vento che sbatte contro l’eternit, mosche che ronzano incessantemente. Ma sono i versi dei cavalli a colpire lo stomaco: campionamenti vocali umani distorti, stretchati, saturati e rallentati per suonare demoniaci, ma mantenendo una traccia inconfondibile di umanità sofferente. Sentire un “nitrito” che si spezza in un pianto umano è un’esperienza che gela il sangue. L’audio è il vero narratore di Horses: è lui a suggerirci che qualcosa di terribile sta per accadere, ben prima che i nostri occhi riescano a decifrarlo nel caos di pixel bianchi e neri. L’assenza di doppiaggio parlato (sostituito da cartelli stile film muto o sottotitoli diegetici) rende ogni rumore ambientale carico di significato e minaccia. Arriviamo infine al cuore oscuro della narrazione, il punto di non ritorno: il finale. Rispetterò la volontà di non rivelare gli eventi specifici dell’epilogo, ma è fondamentale parlarne per capire il senso dell’opera. Chi si aspetta una risoluzione classica, un “finale buono” in cui Anselmo salva tutti e chiama la polizia, o un “finale cattivo” in cui muore, rimarrà spiazzato. Horses rifiuta la catarsi. Horses rifiuta la speranza hollywoodiana. La conclusione del gioco è coerente con la sua premessa nichilista: la fattoria non è un luogo fisico da cui si può scappare, ma un sistema mentale, un tritacarne biologico e sociale che divora l’identità. Più ci addentriamo nei giorni finali, più assistiamo a una trasformazione. Anselmo, che per tutto il gioco ha osservato con orrore misto a passività la condizione dei “cavalli”, finisce per essere inglobato dallo stesso meccanismo perverso.

Il finale ci mette di fronte all’orrore più grande: non la violenza subita, ma la violenza introiettata. Le immagini conclusive, di una potenza simbolica devastante, suggeriscono che non c’è via d’uscita dal ruolo che la società (o la fattoria) ha deciso per noi. Che si diventi carnefici come il Fattore o bestie da soma come i cavalli, l’umanità intesa come empatia e libero arbitrio viene cancellata. È un finale circolare, disperato, “aperto” nel senso più inquietante del termine. Lascia il giocatore con un senso di vuoto pneumatico e una sensazione di sporcizia addosso difficile da lavare via. È la conferma che, come nel corto di Bambi, non importa quanto tu corra o quanto tu sia innocente: il piede di Godzilla è già in caduta libera sopra la tua testa. La violenza, una volta normalizzata dalla routine quotidiana, diventa l’unica lingua possibile, e la vittima di ieri è pronta a diventare il mostro di domani.


Horses è un esperimento di videoarte prestato al medium videoludico, che ne esce con le ossa rotte ma con la testa altissima. L’atmosfera rurale italiana, il sound design angosciante e la disturbante lore dei cavalli umani gridano al piccolo cult, posizionando l’opera di Santa Ragione e Andrea Lucco Borlera tra le cose più coraggiose e sgradevoli (in senso positivo) viste negli ultimi anni. È un gioco che osa guardare dove altri distolgono lo sguardo, che usa il medium non per divertire ma per disturbare, per scuotere. Tuttavia, non si può ignorare che, come videogioco stricto sensu, Horses zoppichi vistosamente. Il gameplay è spesso un ostacolo all’esperienza piuttosto che un veicolo, la confusione visiva estrema supera spesso la soglia del fastidio fisico e i problemi tecnici strutturali lo trascinano verso il basso, impedendogli di raggiungere l’eccellenza che la sua visione artistica meriterebbe. È un titolo che si ama o si odia, senza mezze misure. Un’esperienza che affascina visivamente ma che risulta ludicamente ostile. Consigliato solo a chi cerca un orrore concettuale, a chi ama il cinema di Pasolini e Haneke, e a chi è disposto a perdonare un software che fa di tutto per farsi odiare, pur di lasciarti un segno indelebile sulla pelle.