2014: Top of the Flops

L’avvento del 2015 è ormai prossimo e già, tra i fuochi di artificio delle festività, lanciamo lo sguardo ad un anno venturo pieno di aspettative videoludiche. Se il nostro sguardo è però proiettato al futuro non bisogna dimenticare cosa ci stiamo lasciando alle spalle: dopotutto ogni anno nuovo è figlio di quello vecchio. Che genitore ha quindi questo 2015 ? Difficile definirlo in maniera sbrigativa, ciò che possiamo affermare è che papà 2014 ha certamente sfoggiato una personalità ambigua che si è macchiata di colpe, controversie e scandali alquanto deprimenti. Nella speranza che il 2015 non ci riservi esperienze simili,  vi proponiamo dunque un resoconto dei 10 flop-event del 2014, invitandovi ovviamente a commentare quelli più controversi o, magari, ad aggiungerne di vostri!

 

 

1) Metal Gear Solid V: Ground Zeroes e gli antipasti costosi

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Via il dente, via il dolore. Metal Gear Solid V: Ground Zeroes è una cocente delusione. Piano, piano, riponete i forconi a terra e spegnete quelle fiaccole poichè le avventure di Big Boss tradiscono così tanto le aspettative proprio poichè incredibilmente belle. Kojima ha saputo superare se stesso in questa quinta incarnazione del brand proponendo un gioco che eccelle sotto ogni comparto: storia, grafica, gameplay, sonoro, tutto è estremamente curato e estremamente affascinante. Il problema è che al giocatore non viene nemmeno lasciato modo e tempo di accorgersene data l’esigua durata della campagna principale del titolo che è possibile completare in appena 2 ore. Senza addentrarci in discussioni inerenti a come sia giusto o meno vendere un prodotto dalla durata così esigua per 40 Euro (considerando poi che aggiungendo circa 10 Euro si può raggiungere una quota tale da comprare la collector che contiene praticamente tutti i titoli principali della saga) è stata una vera e propria delusione scoprire che Big Boss ci avrebbe tenuto compagnia solo per una missione. Quando ancora i dettagli relativi al gioco erano sconosciuti tutti si chiedevano in che modo sarebbe stato rilasciato questo famoso prequel, questo misterioso “Ground Zeroes”: sarebbe stato un capitolo solo digitale ? Sarebbe stato un antedecente della storia principale rilasciato insieme a The Phantom Pain ? Tutti erano in attesa del lieto annuncio  facendo speculazioni e previsioni. E invece no, una missione. Una missione. Una. E Kojima ride.

 

2) Watch Dogs e i falsi profeti

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Prima di addentrarci nel vivo del discorso è doverosa fare una premessa: Watch Dogs non è un gioco brutto, anzi, risulta essere un ottimo free roaming sostenuto da un gameplay ben collaudato. Il problema sorge però quando si prende in considerazione ciò esso non è stato. Watch Dogs non è infatti assolutamente nulla di ciò che è stato presentato in fase di campagna stampa. La produzione Ubisoft non risulta essere quel prodotto dalla grafica spaccamascella, al contrario di quanto veniva affermato e fatto vedere prima del rilascio del gioco; non è assolutamente quella creazione innovativa in grado di rivoluzionare i free roaming e, soprattutto non è un gioco in cui è fondamentale sfruttare le abilità di hacking del protagonista. Si, certo, è possibile manomettere qualche semaforo, ottenere le immagini di alcune videocamere di sorveglianza ma la questione rimane sempre sullo sfondo in una sorta di possibilità secondaria ad esclusivo appannaggio di coloro i quali vogliono usufruirne. Non c’è quasi nessun incentivo pratico a sfruttare le doti da hacker di Hayden e quando finalmente si presentano occasioni reali e concrete per far sfoggio delle nostre abilità da geni dell’informatica il tutto risulta essere limitato ad un paio di opzioni preimpostate. Come è però possibile che, tutto sommato, la critica videoludica abbia in parte appoggiato quell’immagine aulica e magnifica che Ubisoft proponeva del suo gioco prima del lancio sul mercato ? Un attimo di pazienza e avrete la vostra risposta.

3) Ubisoft e i regalini

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I press tour, gli eventi speciali in cui è possibile provare un determinato titolo su invito degli sviluppatori, sono una cosa bella: compagnia nerd, materiale in anteprima, possibilità di visitare le fucine in cui sono state forgiate le opere videoludiche a cui siamo interessati e possibilità di postare su Facebook foto che raccolgono un sacco di “mi piace”. Ogni tanto però capita di essere particolarmente fortunati e, in quanto addetti stampa, di ricevere un bel tablet di nuova generazione, o almeno questo è il caso avvenuto durante il press tour di Watch Dogs. Si, sempre lui. Durante uno degli eventi promozionali del pupillo di casa Ubisoft quei geniacci del male del marketing della casa francese hanno infatti pensato bene di regalare dei Nexus 7 della Asus ad alcuni giornalisti, il tutto per passare loro materiale promozionale riguardo a Watch Dogs. Probabilmente una semplice pennetta usb o un raccoglitore con delle foto avrebbe sfigurato, fatto sta che molti inviati, sentendosi un po’ sotto pressione a causa di questo generoso dono, hanno rifiutato cordialmente l’offerta o hanno devoluto in beneficenza la rendita della vendita del tablet. Mosse del genere non sono nuove all’interno del giornalismo, di qualunque tipo, ma la tendenza attuale è che ingerenze di questo tipo stanno divenendo sempre più palesi , marcate e sfaccaite. Ovviamente la questione ha generato un polverone e la Ubisoft come potrebbe aver risposto ? Che l’avvenimento si è trattato di un errore non in linea con le loro politiche di marketing. Vai poi te a capire come un tablet può finire nella borsa di un giornalista per mero sbaglio.

 

4) Flappy Bird e le minacce di morte

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Come la gente possa non solo divertirsi facendo volare un uccellino su una successione di sfondi monotona e composta da elementi riciclati da altri giochi, ma anche pagare per poterlo fare,  è un mistero dell’industria videoludica. Ancora più di difficile comprensione è però il meccanismo emotivo che può portare una persona a minacciare di morte il creatore di un simile passatempo. A febbraio del 2014, Dnong Nguyen, papà di Flappy Bird, un ragazzo di poco meno di 30 anni, decise di rimuovere il suo gioco da ogni store digitale, Google Play o Apple Store, affermando di aver perso la sua stessa vita a causa del prodotto da lui creato. L’invidia della gente divenne tale da portare la folla inferocita a costanti pressioni, attaccandolo con un continuo spam di email e molestie verbali. A poco importavano i 50.000$ giornalieri che Flappy Bird gli permetteva di intascare grazie alla pubblicità presente all’interno dell’applicazione, il vietnamita Dnong  era ormai arrivato al punto di a gettare la spugna e darla vinta ai detrattori del suo gioco, sperando probabilmente di fuggire via dalla luce dei riflettori che da tempo lo perseguitava. Nemmeno qualche ora dopo il suo annuncio via Twitter della sua decisione di rimuovere il gioco che sopraggiunsero altre minacce di morte, questa volta provenienti  dai suoi fan, delusi dalle sue prese di posizione. Alcune di queste persone, fortemente toccate dalle avventure del piccolo uccello di Flappy Bird, minacciarono persino il suicidio qualora il gioco non fosse stato rimesso prontamente sugli store digitali, il tutto in pieno stile da eroinomani in crisi di astinenza. Insomma, lasciare o non lasciare il gioco è stato ininfluente: ad oggi, Dnong ha formalmente perso la proprietà intellettuale sul suo prodotto, non più libero di fare successo o di ritirarsi che ognuno si sente libero di minacciarlo o di sentenziare su cosa dovrebbe farne del suo prodotto.  E tutto questo  è successo per un uccellino.

 

5) L’Australia e il perbenismo

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Che South Park non sia mai andato per il sottile è cosa risaputa a chiunque abbia almeno mai visto anche un solo episodio ed è per questo che quando venne annunciato South Park: The Stick of Truth, gioco rilasciato a marzo 2014, i fan tremarono nella paura di dover vedere l’opera fallire miseramente nell’adattarsi al territorio dei videogame. Per fortuna così non è andata e il gioco creato da Obisidian Entertainment si è rivelato essere una piccola perla di fan service e di divertimento, ma non per tutti. La Ubisoft, pubblisher del prodotto, consapevole che l’Australia avrebbe infatti posto fermamente il veto su alcune parti del gioco che presentavano espliciti riferimenti sessuali, decise infatti di comune accordo con gli sviluppatori di autocensurare un prodotto di per sè dissacrante e che non ha motivo di esistere se privato del proprio libero potenziale creativo. Per fortuna i ragazzi di Obisidan si sono rivelati abbastanza scaltri e, giocando di astuzia, hanno usato la censura per attaccare queste ingerenze creative oscurando le scene incriminate con l’immagine di un koala che piange. Meno fortunata è stata invece la Rockstar che ha visto il proprio GTA V venire bandito dagli scaffali dei noti supermercati australiani Target, il tutto in risposta ad una petizione online che ne chiedeva la rimozione poichè troppo violento. Siamo alle solite, ormai queste polemiche sulla censura e sulla violenza dei videgiochi sanno già di vecchio ma è proprio qui che si annida il problema: alle porte del 2015 ancora il videogioco non è stato valorizzato come medium artistico completamente libero di raccontare storie moralmente ambigue, sessualmente o violente che siano. E che non si faccia l’errore di ritenere l’Australia come un caso a parte poichè alcune scene di South Park: The Stick of Truth sono state censurate anche da noi, in Europa, solo che al posto di un koala che piange è stato inserita la celebre statua de Il pensatore versare lacrime amare. Magra consolazione.

 

6) La Nintendo e gli amori proibiti

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Tomodachi Life è sicuramente un gioco bizzarro che permette di divertirvi a vedere gli avatar da noi creati intrattenersi in folli situazioni e  interessere rapporti. Un po’ Animal Crossing, un po’ The Sims, il gioco Nintendo offre una quantità quasi infinità di possibilità. Esatto, “quasi”, poichè potete far tutto ciò che volete a patto che i vostri desideri non comprendano vedere il vostro personaggio sviluppare sentimenti amorosi nei confronti di un avatar dello stesso sesso. Se da una parte abbiamo quindi l’opera di una Bioware che in saghe come Mass Effect o Dragon Age non solo permette rapporti con personaggi dello stesso sesso, ma anche con personaggio appartenenti a razze differenti, la Nintendo dice no ai rapporti gay giustificandosi affermando che non ha mai avuto intenzione di dar vita ad uno scandalo sociale e che Tomodachi Life dovrebbe essere preso per quel che è: un gioco. Peccato che un passatempo diverte solo se a tutti i giocatori vengono fornite pari opportunità, specialmente in una simulazione incentrata sulla creazione di un proprio alter ego che ci rappresenti in toto, anche nelle preferenze sessuali. Giustamente la questione proprio non è andata giù ai videgiocatori omosessuali che hanno fatto sentire a gran voce le loro proteste con il movimento Miiquality, senza però ottenere un riconoscimento o ascolto concreto. Ogni tanto la realtà è di gran lunga superiore ai mondi virtuali proposti per distrarci.

 

7) Microsoft e un mondo senza Kinect

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Le prime fasi della campagna marketing di Xbox One verranno sicuramente ricordate come una delle più fallimentari operazioni di promozione mai conosciute dall’industria videoludica, ma ciò è accaduto nel corso del 2013. Di che colpa si è macchiata quest’anno la Microsoft ? Probabilmente ricorderete tutti come inizialmente la One venne presentata ad un prezzo poco competitivo poichè 100 Euro superiore a quello della concorenza Sony. Nonostante fosse riconosciuto da tutti come tale strategia di mercato fosse fallimentare la Microsoft si giustificò dicendo che era assolutamente impossibile e categoricamente inammissibile vendere la propria console senza la periferica Kinect. Poco dopo l’uscita della console qualcuno in Microsoft deve aver messo mano ai dati di vendite poichè, con buona pace dei primi acquirenti della One, venne annunciata una nuova versione della console priva della tanto bistrattata telecamera. Sicuramente questa decisione risulta essere un bene, sia per la Microsoft stessa che per i videgiocatori ma è comunque una delusione vedere come la nuova Xbox abbia arrancato nei suoi primi mesi di vita a causa di pubblicità fallacee, scarsa considerazione nei confronti dei mercati internazionali e dietro front plateali in termini di posizioni prese. Sicuramente il colosso di Redmond saprà riprendersi e già sta dimostrando di saperlo fare grazie ad una più oculata guida ad opera di Phil Spencer, capo della divisione Xbox, ma se la prima impressione è quella che davvero conta allora Microsoft ha molto da farsi perdonare.

8) Dungeon Keeper e la prostituzione delle vecchie icone

Dungeon Keeper

Era il lontano 1997 e sui pc di buona parte degli intenditori girava un gioco chiamato Dungeon Keeper, prodotto dall’ormai defunta Bullfrog Productions. In poco tempo, questo interessante strategico seppe conquistare l’affetto di tutti gli appassionati, partorendo anche un bel sequel. Poi più nulla, la serie scomparve nell’oblio. Ci sono voluti 15 anni di attesa e malinconia prima di poter risentire parlare di Dungeon Keeper e già quando si venne a sapere che si sarebbe trattato di un reboot i fan tremarono. Ma va bene, insomma, esistono anche reboot decenti. L’Eletronics Arts, pubblisher del gioco, aggiunse poi che le piattaforme di destinazione del prodotto sarebbero stati i dispositivi mobili e qualche appassionato iniziò già a perdere le speranze. Ma va bene, insomma, esistono giochi decenti anche per cellulari. Infine venne comunicato che il titolo sarebbe stato free-to-play, gratuito, e tutti intuimmo che potevamo anche abbandonare ogni speranza a riguardo:  Electronics Arts e free-to-play non sono d’altronde parole che vanno esattamente d’accordo. Come si temeva, questa edizione del mitico strategico del 97 non è altro che un bieco atto di sfruttare il nome di uno dei prodotti simbolo dell’industria; un gioco mobile in pay-to-win. Non volete spendere soldi ? Perfetto, nessuno vi obbliga ma allora dovete attendere giorni prima di rimettere mano al gioco. Magari anche fissando lo shop  che vi sventola di fronte al volto “economiche” offerte che vi permettono di accorciare le attese tra una fase di gioco e l’altra.

 

9) Assassin’s Creed Unity e i giochi rilasciati a pezzi

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Come con Watch Dogs qui urge fare una specifica: Unity è un bel gioco ed è anche più onesto se rapportato alle avventure dell’hacker irlandese  Tutti conosciamo i bug grafici che affliggevano la Parigi rivoluzionaria durante il periodo post rilascio del gioco, ma non è questo il punto della faccenda. Ciò di cui si vuole parlare in questo spazio è invece come all’inizio il prodotto risultasse essere a malapena giocabile, tant’è che  la quarta patch rilasciata è venuta a pesare 6.7 GB. E chi non ha una connessione e la possibilità, quindi, di scaricare gli aggiornamenti ? Si adegua e accetta il fatto che ormai è lontano il tempo in cui i giochi venivano rilasciati finiti ma, per esigenze di mercato e imposizione dei pubblisher, si opta invece sempre più di sovente per la pubblicazione nei negozi di opere non ultimate. Se da una parte si può comprendere la presenza di bug e glitch non è possibile giustificare errori e sbavature di questo tipo che minano profondamente al corretto godimento del prodotto. Persino la Halo: The Master Chief Collection è risultata essere un esempio lampante di questa pericolosa tendenza che vede il rilascio di giochi monchi: nè il singleplayer nè il multiplayer del prodotto sono risultati essere stabili, o nei casi peggiori persino giocabili, al lancio del gioco. Che poi il prodotto risulti essere bellissimo ad un mese dall’uscita poco importa, in quanto dovrebbe esserlo immediatamente, subito, nel momento stesso in cui il consumatore ci mette le mani sopra. Ma probabilmente questa è ormai una convinzione e un’idea appartenente ad un lontano passato che non ci resta altro che rimpiangere.

 

10)  #GamerGate e il fallimento del popolo dei Gamer

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Riassumere in poche righe uno dei più grandi scandali videoludici degli ultimi anni è cosa quantomai impossibile, ma per avere una generale comprensione dell’argomento vi basti sapere che tutto è iniziato quando Zoe Quinn, sviluppatrice indipendente di videgiochi, è stata accusata di aver sedotto un giornalista per avere un trattamento di favore nei confronti di un gioco di sua produzione. Un caso del genere è terreno fertile per chiunque voglia attaccare briga e offendere (quindi buona parte di chi utilizza internet) e, generando sempre più clamore, ha finito per coinvolgere opinioni e interventi di un numero sempre maggiore di personalità, tra cui citiamo Phil Fish (creatore di FEZ), John Bain (lo Youtuber Totail Biscuit) e la blogger Anita Sarkeesian. Una faccenda personale ha finito così per favorire il lancio di una vera crociata contro la cosiddetta “loggia massonica” dei giornalisti fino a trascinare nella polemica  anche  le donne più in vista dell’industria videoludica, con tanto di dibattito sulla misoginia che la contamina.  Insomma, il #Gamergate era in procinto di assumere tutte le connotazioni di una discussione con argomenti, per alcuni piacevoli e per altri spiacevoli ma sicuramente di un certo spessore contenutistico. E cosa abbiamo fatto noi gamer? Abbiamo trasformato questa occasione di riflessione in una puerile lotta senza quartiere fatta di attacchi personali, insulti sessisti, minacce di morte e accuse false. A suggello del tutto, Zoe Quinn ha visto le sue foto personali e la sua vita privata spiattellate su internet e Anita Sarkeesian è stata formalmente diffidata dal concedere interviste, pena l’esecuzione di una strage all’interno di un college americano. Se è pur vero che alcune delle tesi avanzate dalla Sarkeesian in alcuni suoi video sono abbastanza faziose (etichettare la serie Hitman come un prodotto misogino poiché si possono uccidere delle donne in alcune parti di gioco… ?) in ogni caso va rispettata l’opinione e la libertà della persona di esporre il proprio pensiero, stupido e intelligente che sia. In definitiva, noi gamer abbiamo fallito e, se non impareremo a dialogare in maniera civile, difficilmente verremo mai presi sul serio o riusciremo a proporre l’idea di videogioco come opera multimediale di elevato spessore artistico e contenutistico.