Death Stranding

L’Editoriale di Metalmark – V mensile: Agonia e resurrezione

Negli ultimi anni, l’industria dei videogiochi è cresciuta fino a raggiungere un valore economico e un’influenza culturale paragonabili a quelli di Hollywood. Eppure, in mezzo a numeri da capogiro e a un’evoluzione tecnologica che promette esperienze sempre più immersive, una domanda scomoda aleggia tra i giocatori più attenti: dove sono finite le idee nuove?

Se si osserva il panorama dei titoli tripla A, è difficile ignorare l’appiattimento creativo che lo caratterizza. Il mercato mainstream è dominato da sequel, remake e reboot, con pochissime eccezioni che osano spingersi in territori inesplorati. Si tratta di un problema che non nasce oggi, ma che negli ultimi anni si è acuito fino a diventare un paradosso: mai prima d’ora gli strumenti di sviluppo sono stati così avanzati, eppure mai prima d’ora l’industria è sembrata così impaurita dall’innovazione.

Guardiamo le uscite più importanti degli ultimi anni: le major si sono arroccate su franchise consolidati, alternando seguiti numerati a riproposizioni di vecchi successi aggiornati alla grafica contemporanea. Nel 2023, la classifica dei giochi più venduti includeva nomi come Call of Duty, FIFA (ora EA Sports FC), Assassin’s Creed, Spider-Man, Final Fantasy e Resident Evil. Tutti prodotti di qualità, ma tutti profondamente radicati in IP preesistenti.

Non è un caso: il mercato di massa si muove in base alla prevedibilità. Un nuovo capitolo di un brand consolidato riduce il rischio commerciale, offrendo una base sicura di giocatori già fidelizzati. La formula è semplice: si prende un gioco di successo, lo si aggiorna quel tanto che basta per evitare accuse di riciclo spudorato e si lancia con una massiccia campagna di marketing. I risultati si vedono nei bilanci delle aziende, ma a che prezzo?

Questa strategia finisce per premiare la ripetizione, soffocando la sperimentazione. Il pubblico stesso, abituato a questi cicli, diventa sempre più restio a investire tempo e denaro in esperienze nuove, alimentando un circolo vizioso in cui le idee originali diventano merce rara.

Il problema, ovviamente, non è la presenza di sequel e remake in sé, ma la loro predominanza. Gli anni ’90 e 2000 hanno visto il debutto di franchise che oggi sono pilastri dell’industria: Metal Gear Solid, Halo, The Elder Scrolls, Mass Effect, BioShock, Dark Souls. Oggi, invece, l’ultima grande IP originale nel panorama tripla A che ha lasciato un segno indelebile è probabilmente Elden Ring, e in fondo è poco più che un’evoluzione di Dark Souls.

Le cause sono molteplici, ma il problema principale è il costo sempre più elevato dello sviluppo. Creare un videogioco tripla A, oggi, significa investire centinaia di milioni di dollari, e un fallimento commerciale può mandare in crisi interi studi. In questo contesto, è comprensibile che i publisher preferiscano puntare su nomi noti, piuttosto che su nuove proprietà intellettuali, anche se questo significa sacrificare la freschezza creativa.

L’eccessiva enfasi sulle metriche di engagement e sulla monetizzazione ha ulteriormente aggravato la situazione. La struttura di molti giochi tripla A è ormai subordinata ai modelli di business: open world ripetibili all’infinito, stagioni di contenuti aggiuntivi, battle pass, microtransazioni. Il design stesso è piegato a queste logiche.

Cosa servirebbe? Semplice: un cambiamento di mentalità. Alcuni segnali positivi esistono, del resto: un’opera come Death Stranding ha dimostrato che esiste ancora spazio per il rischio, ma si tratta di un’eccezione alla regola.

I giocatori hanno un ruolo cruciale in questa trasformazione: premiare l’originalità, dare fiducia alle nuove IP, evitare di ricadere nella comfort zone dei soliti giochi annuali. Solo così si potrà invertire una tendenza che, altrimenti, rischia di condannare il mercato tripla A a un futuro sempre più prevedibile e meno entusiasmante.

Fate un favore a voi stessi: fatelo. Dal canto nostro, cercheremo di darvi una mano con le nostre recensioni.

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