Medal of Honor: Warfighter: la recensione di VMAG

Si può discutere a lungo sulla spettacolarizzazione della guerra nei videogiochi, sulla vuotezza di contenuti con la quale la più antica delle tragedie umane viene raffigurate e sulle origini di questo vero e proprio fetish che i giocatori sembrano avere per violenza e armi da fuoco. Ma, senza scadere in facili moralismi, giochi come Call of Duty hanno optato per la sincerità di presentare la guerra interattiva per quello che è: divertente.

Fa pensare, invece, l’approccio quasi intimista scelto da Medal of Honor, e fa ancora più pensare che, all’atto pratico, finisca per risultare ancora più povero e sottile a livello narrativo della sua controparte Activision.Warfighter gioca a raccontare il lato umano della guerra, mostrando l’altra faccia della medaglia, ovvero chi rimane a casa, chi vive nell’ansia costante di non rivedere mai più chi è partito per combattere nel nome di chissà quale ideale.

Ma è solo una farsa: non scopriamo mai davvero quali sono le motivazioni dei guerrieri protagonisti, e tutta la melensa retorica bellica finisce soltanto per scimmiottare quella della filmografia di Spielberg, ovvero colui che, in un tempo ormai lontano, diede proprio i natali alla serie. A indignare non è la mancanza del pathos, è il suo essere finto e posticcio, inserito alla stregua di una qualsiasi altra feature per tentare di contrastare la concorrenza. Almeno dal punto di vista produttivo, il colosso americano ha provato a fare le cose in grande, mettendo questa volta al timone del progetto un solo team di sviluppo, alle prese con un  solo motore grafico, ilFrostbite 2.

Se i lavori sul primo capitolo del reboot erano infatti ripartiti tra EA Los Angeles (single player) e DICE(multiplayer), a curare l’intera realizzazione sono ora i non troppo acclamati ragazzi di Danger Close. Da un punto di vista tecnico il titolo si dimostrerebbe anche valido, con un’ottima modellazione poligonale di personaggi e livelli, ed effetti particellari, come esplosioni e pulviscolo, a tratti impressionanti.

La distruttibilità dell’ambiente può competere con quella di Battlefield 3 e, tralasciando per un attimo i contenuti, il gioco presenta un flavour cinematografico di grande impatto, grazie a cutscene e inquadrature spettacolari. Anche il livello qualitativo delle sparatorie si attesta tra i più alti del genere, con ognuna delle armi capace di restituire un feeling unico tanto negli spari che nelle dinamiche dei proiettili. Ma naturalmente tutto questo è incluso nel pacchetto Frostbite 2, ed è infatti nella componente non strettamente tecnica che il gioco pecca in maniera clamorosa. Sembra quasi che i ragazzi di Danger Close abbiano seguito passo passo il manuale di istruzioni per montare un FPS, dal momento che le missioni sono strutturate nel modo più telefonato possibile.

Ci si sposta da un luogo all’altro sconfiggendo orde di nemici, sequenze intervallate tutt’al più da qualche inseguimento in mezzo a gigantesche esplosioni o a bordo del solito elicottero (il cui modello di guida non può neanche guardare da lontano quello di Battlefield). La guerra non è mai stata tanto rumorosa quanto noiosa e, anche a rifletterci bene, non c’è mai veramente niente che Medal of Honor faccia meglio di tutti gli altri FPS presenti sul mercato. Ma il suo essere mediocre non significa che riesca a rientrare senza problemi nella media del genere.

Un discorso che vale soprattutto per l’intelligenza artificiale, cieca e ottusa, che va ulteriormente a impoverire una campagna già piattissima sul fronte del level design. Tutt’altro che sopraffini strateghi, come la trama imporrebbe, i vostri nemici si limiteranno a caricarvi in massa o a proteggersi sempre dietro le stesse coperture in maniera automatica, rendendo ogni uccisione un compito meccanico e ripetitivo.

Stesso discorso anche per i propri compagni di squadra, che più che appartenere al Tier 1 si comportano come il compagno scemo del vostro gruppo di softair. Neppure per quanto riguarda il multiplayer, punto focale in produzioni di questo genere, questo Warfighter fa molto per staccarsi dalla concorrenza. Buona idea quella del Fire Team: il gioco vi asssegna un compagno che vi seguirà per tutta la durata delle partite online, condividendo con voi munizioni, la sua posizione; il gioco vi incentiva anche a collaborare per ottenere dei punti aggiuntivi, e velocizzare così la progressione nel sistema di livelli del gioco.

Un sistema che però impiega un bel po’ a ingranare, dal momento che solo dopo molte ore di sessioni online potrete guadagnare la suite completa delle classi giocabili. Come molti degli elementi di Warfighter, il multiplayer fa il suo dovere, e punta anche sull’abbondanza, proponendo una lunga lista di modalità, alcune delle quali davvero originali.

È probabilmente il multiplayer il vero punto di forza di Medal of Honor: Warfighter ma, anche in questo caso, si parla tutt’al più di gradevoli passatempi e non certo d’eccellenza. Non riusciamo davvero a cogliere la politica dietro Medal of Honor, serie che sta attraverso una disperata crisi d’identità e che neanche nel tentato recupero della sua dimensione narrativa non riesce mai davvero a colpire.