Call of the Sea Recensione – Bello il mio Cthulhu

Versione Xbox Series X

Call of the Sea Recensione | Dunque, penso che quest’oggi tutti quanti abbiano almeno sentito nominare H.P. Lovecraft e le sue opere del terrore. Oppure, se proprio non l’autore in persona, una delle sue creature: la famosissima star degli oceani e della pazzia Cthulhu, o uno dei suoi fratelli antichi e innominabili. Il bagaglio di incubi partorito dalla mente del geniale scrittore è stato un pilastro del genere horror anche per quanto riguarda i videogiochi, ispirano direttamente opere come Call of Cthulhu Bloodborne – per non citarne un’altra infinità. Da appassionato, posso ormai affermare con certezza che il lato spaventoso dell’opera di H.P. è già stato proposto in centinaia di varianti, tutte un po’ con lo stesso sapore ormai. Eppure Out of the Blue, giovane casa di sviluppo impegnata nel suo primo lancio, ha deciso di invertire la rotta e provare qualcosa di nuovo. Il suo titolo di debutto è Call of the Sea, un’avventura lovecraftiana non horror incentrata unicamente sul mistero e sulla ricerca. Tenebrosi templi lasciano spazio a maestosi paesaggi, culti e sette vengono sostituiti da affascinanti culture indigene, e per una volta l’atmosfera punta più sul fattore meraviglia che sull’inquietudine. L’opera è disponibile su Windows, Xbox One e Xbox Series X|S. Io non vedo l’ora di parlarvi di questo piccolo e prezioso esperimento, quindi addentriamoci in questa recensione.

Allora, cari investigatori dell’occulto, come si racconta una storia di Lovecraft senza l’orrore? Questa è una sfida interessante, specie per chi ha sempre apprezzato il worldbuilding dell’autore più del conteggio cadaveri delle sue opere (a volte pure inesistente). Le leggende dei Grandi Antichi e il loro operato sulla civiltà umana sono elementi affascinanti per un amante della narrativa, che spesso purtroppo tengono lontani i potenziali fan a causa del loro inserimento in prodotti di paura – meglio riusciti e non. Out of the Blue decide quindi di presentare una vicenda interamente narrativa, ricca di esplorazioni e puzzle, che punta il cannocchiale sulla bellezza del mistero. Nonostante vengano mantenuti i capisaldi della scrittura di H.P. (pazzia, abissi, morti) tutto è circoscritto in un’atmosfera leggera e piacevole, persino maestosa. Se cercate un titolo che vi possa far saltare dalla sedia o far accapponare la pelle, siete sulla strada sbagliata.

Un aspetto fondamentale del gioco è che certi enigmi possono essere risolti anche senza trovare tutti gli indizi. Sta a voi decidere se usare la testa o le gambe.

Parlando della vera e propria trama, ovvero il motore di Call of the Sea, possiamo ritenerci soddisfatti. Le vicende narrate non sono nulla di eccezionalmente originale, semmai al contrario qualcosa di molto familiare e riconoscibile. La nostra protagonista, una donna vittima di sogni ricorrenti e di una strana malattia cutanea, si mette sulle tracce del marito scomparso in circostanze strane durante una spedizione. Il viaggio la conduce su un’isola della Polinesia francese, che scopre essere teatro di artefatti perduti, rituali occulti ed eventi inspiegabili legati alla sparizione del compagno di vita. Ciò che segue è un mix bilanciato di esplorazione e narrazione. Nel mentre ricomponiamo il puzzle del mistero che avvolge l’atollo attraverso brevi dialoghi ed esposizioni più visive che testuali, ammiriamo la bellezza dell’ambientazione creata da Out of the Blue e ci scervelliamo su acuti rompicapi. Un applauso va fatto al ritmo dell’opera, che riesce nella sua brevità ad alternare magistralmente il gameplay con il racconto, donando costantemente un senso di avanzamento e di progresso che tiene incollati allo schermo tra un ragionamento e l’altro. Un titolo quindi adatto a chi adora i segreti e gli enigmi, specie quando c’è da lavorare di testa.

 

E se, per una volta, il risveglio dei Grandi Antichi fosse teatro di una storia d’amore?

 

Nulla di tutto questo però sarebbe possibile senza un degno comparto grafico, e quello di Call of the Sea lascia parecchio di cui discutere. A livello estetico, la scelta di colori e di atmosfera è azzeccatissimo per quello che è l’obiettivo degli sviluppatori. Tinte calde e un’elevata quantità di luce accompagnano il giocatore in un mondo variopinto che trasmette molti tipi di sentimenti, dal piacere esotico della scoperta alla grandezza opprimente dell’opera lovecraftiana. È stupendo poter godere, per una volta, di un mood leggero e piacevole, quasi rilassante (sensazioni solitamente aliene nei miti di Cthulhu e compagnia). C’è tuttavia da sottolineare che non è oro tutto ciò che luccica: la grafica non grida al miracolo e alcuni suoi elementi stonano con il resto – l’orrenda acqua delle cascate è in sé più terrificante delle gigantesche creature marine che passano ogni tanto a salutare. Inoltre si è scelto un approccio più cartoonesco che realistico alla ricostruzione dell’isola polinesiana, decisione che per molti sarà gradita e per altri dannata, nessuna via di mezzo.

L’unico vero orrore primordiale.

Arriviamo infine a parlare del gameplay, dopo una lunga panoramica sui pilastri di Call of the Sea. Sebbene chiamarlo “walking simulator” sarebbe pari a un insulto, è indubbio vero che in questo titolo si cammina molto, e questo costituisce gran parte dell’avventura. Gli sviluppatori hanno fatto il possibile per rendere gli spostamenti piacevoli, rimpicciolendo le mappe e arricchendole di elementi da analizzare e con cui interagire. Questo rende l’esplorazione decisamente più leggera e gradevole rispetto a opere simili, sebbene rimanga ben presente la lentezza di una tale esperienza. Ci sono poi alcuni elementi come le lunghe animazioni per le scale che rendono l’esplorazione un tantino tediosa e fastidiosamente apatica (seriamente, come fa questa donna a essere così moscia nel salire e scendere?). Questa costante oppressione di calma aiuta a costruire l’ambientazione e ad alimentare il senso di meraviglia quando ci troveremo finalmente di fronte ai grandi misteri lovecraftiani, ma è purtroppo difficile conviverci se siete giocatori frettolosi o amanti dell’azione.

Non che ogni tanto non si possa tornare ad atmosfere e colori familiari. Ora, questo sì che è un classico.

Al contrario, lode sia ai puzzle. Creare un titolo basato su rompicapi non è un’impresa facile, questo a causa di due rischi. Il primo è quello di creare enigmi troppo semplici, che non richiedono alcun ragionamento al giocatore e annullano completamente il proprio scopo (i recenti titoli Pokémon sono specialmente vittima di questo fenomeno). D’altro canto, un’eccessiva dose di difficoltà e astrusità in questi e il fruitore dell’esperienza potrebbe abbandonarla dopo poche ore, per via della stanchezza e della frustrazione. Realizzare un buon puzzle game vuol dire rimanere su quella via di mezzo dove la nostra mente gioca un ruolo chiave, ma il titolo fornisce abbastanza indizi da non lasciarci vagare nel buio per troppo tempo. Call of the Sea può quindi definirsi un ottimo esempio di questo: la costruzione dei rompicapi e molte opzioni di quality of life (tra cui un taccuino che automaticamente prende nota di tutto l’essenziale per raggiungere la soluzione) fanno sì che il viaggio sia soddisfacente e rapido senza tempi morti o muri insuperabili. Ci sentiremo veri e propri detective dalla mente espansa, e poco importa se questo è dovuto alle nostre effettive capacità o dagli incentivi della protagonista – che non fa che complimentarsi con sé stessa (ergo noi) a ogni mistero svelato.

Indizi e documenti importanti vengono automaticamente annotati, così da avere sempre sotto mano i pezzi per risolvere gli enigmi.

In conclusione, Out of the Blue ha saputo dimostrare che è possibile sovvertire la natura di un’opera senza intaccarne la bellezza. Chi è interessato agli orrori di Lovecraft ma non ha la passione per spaventi e ansie può tranquillamente rivolgersi a Call of the Sea, che lo accompagnerà in un viaggio intrigante e meraviglioso dall’inizio alla fine. Sebbene breve, l’opera possiede un giusto ritmo e una serie di trofei abbastanza ampia da non stufare, ma nemmeno lasciare con la bocca asciutta. Alcuni elementi potrebbero stonare con la vostra concezione di buon titolo narrativo ispirato all’occulto, tra cui l’atmosfera molto più luminosa del solito, ma alla fine è questione di gusti. Gusti che questo titolo ha bene in mente e riesce a soddisfare, dando vita a una vicenda che troverà favore nella sua nicchia di appassionati. Superata la lentezza dell’avanzamento e qualche elemento estetico fuori posto, non resta che lasciarsi cullare dal fascino del mistero e vedere fin dove vogliamo spingerci: toccare solo la superficie, o scendere verso i più bui abissi?