Akira Toriyama: un viaggio tra chine, controller e mondi digitali

Akira Toriyama

All’interno del nostro settore, pochi nomi brillano con la medesima intensità di quello di Akira Toriyama: benché nasca come illustratore e fumettista, questo autentico maestro del design ha lasciato un’impronta indelebile nell’industria videoludica, riversando la sua vivida creatività e il suo stile iconico in una serie di titoli che hanno modellato intere generazioni di giocatori. La sua scomparsa, avvenuta lo scorso 1 marzo, ha lasciato un vuoto nel cuore di milioni di fan sparsi per il globo terracqueo, che ora piangono la perdita di un talento fuori dal comune. Tuttavia, anche se materialmente ci ha lasciati, la sua eredità resta saldamente radicata nei microcosmi cui ha dato forma e nei cuori di coloro che hanno avuto il piacere e il privilegio di esplorarli. Attraverso i suoi lavori, Toriyama ha trasceso il semplice status di artista per divenire un artefice di mondi fantastici, un visionario per immagini che ha saputo incantare e affascinare le menti di chiunque abbia incrociato il suo cammino. E, mentre gli appassionati si fermano un momento per commemorare la sua vita e le sue opere, su Vgmag continuiamo a celebrare il lascito di questo grande uomo, riflettendo su come e quanto i titoli ai quali ha preso parte siano riusciti a formare le nostre vite, diventandone una concreta parte integrante.

Akira Toriyama

Dragon Quest e Akira Toriyama: una straordinaria epopea fantasy

La più celebre delle produzioni cui il compianto maestro ha concesso la propria genialità è senza dubbio Dragon Quest, la longeva serie di giochi di ruolo fantasy di stampo nipponico creata da Enix nel 1986, che vanta all’attivo undici capitoli principali, decine di spin-off e svariati adattamenti cartacei e animati. Spesso accreditato come il primo vero RPG a turni per console della storia, la sua popolarità in Giappone è assolutamente fuori scala per quanto, malgrado la distribuzione molto più capillare degli episodi più recenti, all’estero risulti ancora meno popolare rispetto alla sua controparte più rinomata, ossia Final Fantasy. Il suo coinvolgimento in questa epica saga è stato fondamentale fin dall’inizio, tanto da essere considerato uno dei pilastri su cui poggia l’intero marchio assieme al suo creatore, Yuji Horii, e all’impareggiabile Koichi Sugiyama, scomparso nel 2021, che ha composto il tema portante del gioco divenuto con il tempo un tratto distintivo nella cultura nipponica. Ma Toriyama non si è limitato ad indossare i panni di illustratore per Dragon Quest, il ruolo che ha interpretato è stato quello di autentico demiurgo, che ha saputo infondere vita in ogni pixel dei mondi fantastici tradotti dall’iperuranio alla realtà sensibile: grazie a matite, inchiostri e colori, ha dipinto panorami mozzafiato, abitati da eroi coraggiosi e mostruosi nemici, capaci di trasportare i giocatori in un viaggio epico attraverso terre sconosciute e pericoli inimmaginabili. Ogni capitolo della serie ha visto Toriyama incanalare le parole dei creatori dentro immagini vibranti e suggestive. Dalle sconfinate praterie di Alefgard alle città labirintiche di Lotozetasia, ogni luogo possiede una propria identità unica, forgiata da mani esperte. Il design dei campioni del bene, dal leggendario Arus di Dragon Quest III, che diverrà il primo Erdrick/Roto della storia, al Lucente di Dragon Quest XI, dal principe Allen di Midenhall in Dragon Quest II a Solo/Sofia di Dragon Quest IV (i nomi vengono di solito canonizzati nel materiale narrativo supplementare, come i drama CD, laddove nei giochi gli utenti sono in grado di battezzare i protagonisti a piacimento), ha reso ogni passo all’interno dei vari Dragon Quest un’esperienza indimenticabile. Akira Toriyama ha trascinato i giocatori in terre lontane di pura fantasia, dove le cronache mitologiche prendono vita sotto i loro occhi e l’eroismo è una forza tangibile.

Akira Toriyama

Ma l’eredità artistica con cui ha segnato profondamente Dragon Quest va ben oltre i personaggi principali. Anche tutti i nemici, che abbiamo imparato a conoscere e identificare ben prima dell’arrivo di un certo plotone di mostri tascabili, sono stati congegnati dalla sua abile inventiva, e hanno regalato al genere dei giochi di ruolo targati Enix prima, e Square Enix oggi, un fascino unico e inconfondibile a prescindere dall’incontro con un semplice Slime, un Vampistrello, uno Skelama o uno spaventoso Gigadragone. Ogni sprite, ogni singola illustrazione, è una finestra su un universo incantato, ricco di peripezie e meraviglie da scoprire. Persino i pittoreschi abitanti dei villaggi traboccano di dettagli più o meno riconoscibili e contribuiscono a formare una collettività dinamica, espressiva e vibrante, che continua a incantare e affascinare gli estimatori di tutte le età. Il lavoro che Toriyama ha svolto in Dragon Quest è molto più di una collaborazione artistica: è un’immersione totale in una serie di titoli davvero indimenticabili, mondi interi dove l’immaginazione diventa realtà e l’avventura è sempre dietro l’angolo. E così, mentre il sole tramonta sui regni di Dragon Quest, in attesa che sorga di nuovo con l’arrivo del tanto atteso capitolo successivo, l’arte e le capacità di Akira Toriyama continueranno a illuminare il cammino dei giocatori, guidandoli attraverso scenari fiabeschi e racconti epici, solenni e memorabili per infinite generazioni a venire.

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Le traversie di Chrono Trigger, attraverso il tempo e lo spazio

Nessun tributo a Toriyama sarebbe completo senza un’approfondita disamina del capolavoro senza età intitolato Chrono Trigger. Realizzato in collaborazione con il celebre papà di Final Fantasy, Hironobu Sakaguchi, e con Yuji Horii, il summenzionato maestro dietro Dragon Quest, lo stile del fumettista ha conferito al gioco il suo emblematico aspetto, cementandolo nell’immaginario collettivo come uno dei migliori esponenti di sempre nel panorama dei JRPG. L’apporto da lui fornito non è stato semplicemente di natura estetica, ma l’intero progetto ha rappresentato un’amalgama di attitudini professionali differenti, una sinfonia di vene creative dalle quali è scaturito un universo che ha affascinato milioni di giocatori in tutto il mondo. Ogni personaggio, ogni dettaglio, riflette la maestria di Toriyama nel creare mondi vibranti e personaggi indimenticabili. Maestosa nella sua semplicità, la storia di Chrono Trigger racconta di viaggi nel tempo, di amicizia e di destino. Attraverso le sue trame sapientemente intrecciate, il gioco esplora temi universali come il sacrificio, la redenzione e il potere della volontà: i concetti base di questa particolare tipologia di racconti, che di solito mettono in guardia contro i tentativi di modificare un passato ritenuto ineluttabile, vengono qui stravolti per dimostrare che invece il susseguirsi degli eventi può essere alterato se la determinazione che ci guida è salda e tenace. Quella in cui ci ritroveremo è un epos magniloquente che spazia attraverso le epoche, dalla preistoria alla fine dei tempi, e il cammino che dovremo intraprendere è costellato di nemici, alleati e minacce sovrannaturali. Il cast principale, delineato dal genio di Akira Toriyama, è composto da un manipolo di viaggiatori del tempo, portatori di speranza e cambiamento: da Crono, il silenzioso protagonista, a Lucca, la geniale inventrice, ogni membro del cast brilla con una personalità unica, resa ancora più vivida dalle illustrazioni dell’artista.

Akira Toriyama

Ma, anche in questo caso, il suo coinvolgimento non si è limitato agli eroi protagonisti e alle loro nemesi. Dai piccoli villaggi alle mastodontiche città, ciascuna era temporale è stata plasmata dalla sua mano abile, trasformando l’esplorazione di Chrono Trigger in un viaggio attraverso mondi pieni di mistero e meraviglia. Dai vasti paesaggi del regno di Guardia ai futuristici meandri del 2300 d.C., ogni luogo ha una sua identità unica, grazie al tocco artistico dell’illustratore. E i mostri? Anche loro portano la sua firma distintiva come gli imponenti Reptiti e Megasauri preistorici, i robot del futuristico Geno Dome riprogrammati da Mother Brain e le mostruosità che albergano tra le mura del Black Omen, tutti hanno beneficiato di un’estrema perizia, regalando al mondo di Chrono Trigger una eterogeneità e una vivacità senza pari. Non stiamo parlando di un gioco come tanti, ma di un’opera d’arte interattiva, un capolavoro della narrazione e del design che continua a ispirare e affascinare i giocatori anche dopo decenni dal suo rilascio. E gran parte di questo merito va a Akira Toriyama, il cui genio creativo ha contribuito a renderlo unico nel suo genere. Se devo dirla tutta, non credo di aver mai giocato a un gioco di ruolo negli ultimi 25 anni senza averne confrontato qualche aspetto con Chrono Trigger, per poi giungere alla conclusione che nella maggior parte dei casi Square aveva fatto qualcosa di meglio nel 1995. Molti videogiochi hanno abbracciato la ricorsività perenne, con ogni nuovo capitolo che si basa su quanto fatto dai predecessori per tentare di migliorarlo, sia meccanicamente che tecnologicamente. Ma questo non è il caso del lavoro nato dagli sforzi del “dream team” di Square e Enix, un prodigio della generazione a 16 bit che non è mai stato veramente surclassato. Tutti i suoi fantastici elementi si combinano in un gioco meraviglioso in cui, anche 25 anni dopo, essere svegliati da nostra madre in una splendida giornata di sole rappresenta il sereno inizio di un’avventura impossibile da dimenticare.

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I combattenti intergalattici di Tobal No. 1 e 2

È difficile sopravvalutare l’influenza che il team dietro l’originale Virtua Fighter ha avuto nel campo dei picchiaduro 3D. Poco dopo il suo completamento, due dei suoi membri chiave, il game designer Seiichi Ishii e il character designer Kunihiko Nakata, lasciarono AM2 di Sega per Namco. Ishii sarebbe diventato il principale designer e direttore dei primi due Tekken, mentre Nakata avrebbe creato alcuni dei personaggi più iconici della serie. È un po’ come se Kouichi Nakamura e Akira Toriyama, dopo aver contribuito alla creazione di Dragon Quest, fossero entrati in Squaresoft per dare alla luce Final Fantasy. Ma la storia non finisce qui. Apparentemente insoddisfatto del suo lavoro, Ishii lasciò Namco, portando con sé buona parte della squadra con cui aveva realizzato Tekken. Insieme a un’altra mezza dozzina di persone provenienti che avevano contribuito al successo di Virtua Fighter, tra cui il programmatore principale Toru Ikebuchi, e con il supporto di Squaresoft formarono una nuova società: Dream Factory. Nakata nel frattempo passò a Lightweight, un altro nuovo studio legato a Square, dove sarebbe diventato direttore dei due Bushido Blade. Per lavorare su Tobal No. 1, titolo d’esordio della consorteria capitanata da Ishii nonché loro primo excursus nel campo dei picchiaduro, Square chiese perciò proprio il supporto di Toriyama, affinché si mettesse all’opera su un variopinto cast di lottatori dopo la sua fortunata partecipazione in Chrono Trigger e forte del successo mondiale ottenuto con Dragon Ball, conclusosi qualche mese addietro. Bizzarri, strampalati e dalle fattezze non sempre antropomorfe, i concorrenti che prendono parte al torneo che si svolge sul pianeta Tobal sono rappresentativi del tipo di personaggi che preferiva disegnare quando gli veniva concessa la completa libertà per farlo.

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Sempre al pari dei due pluricitati giochi di ruolo, il maestro ha avuto anche la responsabilità di concepire l’ambientazione e dei loro pianeti d’origine dei personaggi, composti da razze diverse come umani, alieni e robot, tutti caratterizzati dal suo tratto distintivo e da quel design retro futuristico che adoriamo. La storia inizia nel 2027, quando una sonda spaziale terrestre scopre accidentalmente il pianeta Tobal, pieno di un prezioso minerale che, una volta sintetizzato, può diventare la fonte di energia definitiva. Il sovrano del posto nonché maniaco delle arti marziali, l’imperatore Udan, indice ogni 200 giorni una competizione chiamata “Tobal Number One”, nel quale il vincitore riceve una grossa somma di denaro e il titolo di “Super Tobal Man”. Tobal No. 1 prende il via durante il 98° torneo, nell’anno 2048 e il sequel, Tobal 2, ne espande a dismisura tutti gli aspetti, a partire da un impressionante roster di 200 combattenti tra protagonisti, boss e mostri catturabili nella modalità quest, la maggior parte dei quali sono naturalmente delle semplici variazioni di colore col medesimo set di mosse. Inoltre, sorpresa delle sorprese, lo stesso Toriyama ha voluto prendere parte alla contesa ed è sbloccabile con le fattezze del classico robottino dalle mani a tenaglia e la maschera antigas con cui era solito raffigurarsi nei suoi lavori cartacei. I due Tobal avrebbero poi avuto un successore spirituale con Ehrgeiz, sempre firmato Dream Factory, ma il loro destino è stato purtroppo quello di finire nel dimenticatoio, senza che ne venisse mai realizzata nemmeno una rimasterizzazione per celebrarne la visione creativa. Resta uno dei picchiaduro a incontri più originali dell’epoca, che meriterebbe di essere riscoperto quantomeno dagli estimatori del genere.

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Blue Dragon, ovvero l’alba di una nuova speranza

La genesi di Blue Dragon è altrettanto interessante quanto il gioco stesso. La storia inizia nell’estate del 2001, mesi prima dell’uscita della prima Xbox: forte del successo di Final Fantasy VII, Square stava cercando di raggiungere un altro grande traguardo, questa volta al cinema, tuttavia il risultato fu il disastroso Final Fantasy: The Spirits Within. A parte i dibattiti sulla qualità intrinseca, il film non riuscì a trovare un vero e proprio pubblico, e divenne uno dei più grandi insuccessi al botteghino di tutti i tempi. Il fallimento fu il catalizzatore che spinse l’ideatore di Final Fantasy e il regista del film, Hironobu Sakaguchi, a lasciare la Square. Nel 2004 la Xbox era uscita in Giappone da due anni e una cosa era chiara: non stava funzionando. Dopo quelli che l’allora capo di Xbox, Peter Moore, avrebbe descritto in seguito come dieci mesi di riunioni serrate, lui e Sakaguchi siglarono un accordo davanti a “una bottiglia di sake molto costosa”, che consisteva nella produzione di due giochi di ruolo da parte del nuovo studio di quest’ultimo per successiva console di Microsoft, al tempo non ancora annunciata. L’accordo venne menzionato fugacemente durante un evento nel febbraio 2005, mentre il nome Blue Dragon sarebbe stato pronunciato per la prima volta dalle riviste giapponesi qualche mese più tardi. Un vantaggio del reclutamento di Sakaguchi era che il suo nome possedeva una risonanza incredibile anche alla luce di quel tremendo passo falso cinematografico: i giocatori in Giappone e all’estero riconoscevano la sua visione e gli sviluppatori lo rispettavano. In tal senso, l’investimento su Mistwalker fu una sorta di colpo di fortuna per Xbox. Nel 1995, il celebre designer era già riuscito a mettere insieme il suo “dream team” dei cinque sviluppatori di giochi di ruolo più prolifici del Giappone per creare l’incredibile Chrono Trigger. Nel 2004, richiamò all’appello tre dei membri di quella squadra (lui stesso, il musicista Nobuo Uematsu e, per l’appunto, Akira Toriyama) e diede il via al primo progetto targato Mistwalker. Con le musiche dell’amatissimo Nobuo Uematsu e il comparto artistico curato dalla mente geniale dietro Dragon Ball e Dragon Quest, il titolo aveva già creato ottime premesse per far sì che la Xbox 360 si ritagliasse un pubblico più vasto in Giappone, e in effetti al lancio fu in grado di realizzare l’impossibile: far vendere una piattaforma straniera in terra nipponica.

Il cuore della produzione è formato da un gameplay progettato in maniera ingegnosa e costruito a partire dalle più radicate consuetudini dei giochi di ruolo giapponesi. Il lignaggio di Blue Dragon deriva più da Dragon Quest che da Final Fantasy, ed è proprio questo il motivo per cui l’estetica peculiare di Toriyama e la sua visione più tradizionalmente sbilanciata del combattimento a turni sono stati due dei suoi maggiori punti di forza. Il risultato sono battaglie dal ritmo metodico e in parte ripetitivo, laddove molti altri avevano incominciato a spingersi verso combattimenti più cinematografici: Blue Dragon scelse di abbracciare un sistema semplice che offre essenzialmente una versione molto più rifinita dei combattimenti sperimentati negli anni ’90 su macchine meno potenti. Il racconto di Sakaguchi procede su binari essenziali e stereotipati con Shu, il tipico protagonista testardo dai capelli a punta, affiancato da un manipolo di amici che ricalcano a loro volta uno specifico tropo di manga, anime e JRPG: Jiro, l’amico d’infanzia zelante e studioso che fa da contraltare al carattere irruento di Shu; Kluke, la ragazzina coraggiosa che finisce per mettersi spesso nei guai; Zola, l’adulta del gruppo che funge da guida per i suoi alleati ma nasconde le sue reali motivazioni, e via di questo passo. Non ci troviamo dinanzi a una storia melodrammatica dall’ampio respiro, ma a una sorta di scorribanda all’insegna dell’avventura che sembra tratta da un tipico cartone animato mattutino, e non a caso venne anche adattato in una serie TV composta da due stagioni. L’eredità di Blue Dragon è consistente. Ha permesso a Sakaguchi di creare un altro gioco di ruolo dal budget significativo, ed è stato l’occasione per Microsoft di affermarsi sul mercato giapponese. Anche se alla fine la Xbox 360 non ha avuto il successo sperato in terra d’oriente, questo gioco, insieme a Lost Odyssey e ad altri, è la prova che Microsoft ci ha davvero provato. Blue Dragon è stato il primo JRPG per Xbox 360 ad ottenere un relativo successo, gettando le basi per molti altri titoli simili e permettendo alla console di vendere in Giappone molto più di quanto previsto. Grazie al sodalizio tra Sakaguchi e Toriyama, che ha regalato al mondo un’altra odissea ricca di mostri e personaggi assolutamente emblematici, questo gruppo di simpatici eroi contro le forze del male rappresenta una tappa molto speciale nella storia di Xbox.

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Gli altri universi visitati da Akira Toriyama

Shonen Jump è la più grande rivista di manga al mondo e i lavori di Toriyama ne sono parte integrante. Per questo motivo, quando Shueisha celebra i suoi franchise nei videogiochi, gli è stato spesso chiesto di presenziare in maniera attiva: naturalmente, tutti i personaggi dei suoi manga fanno la loro comparsa, ma l’artista ne ha anche disegnati di esclusivi per le trasposizioni digitali, iniziando con il design di Dark Raid per Jump II: Saikyō no Shichinin (I Sette Più Forti) su Famicom, un action RPG con gli eroi delle serie più famose della rivista nel ruolo di protagonisti. La maggior parte dei giocatori, al giorno d’oggi, probabilmente ricorda il suo contributo su Jump Force, per il quale ha realizzato una serie di antagonisti originali legati all’ambientazione crossover del titolo, come il direttore Glover, Navigator, Galena, Kane e il boss finale, l’insidioso Prometheus. Anche Dragon Ball ha beneficiato di una pletora di adattamenti videoludici, dei quali vi parleremo in un altro articolo, ma Akira Toriyama non ha quasi mai partecipato direttamente: il primo videogioco tratto dalla serie sul quale ha messo le mani è stato Dragon Ball: Shenron no Nazo (Il Mistero di Shenron, noto negli USA col titolo Dragon Power) del 1986, sempre per Famicom, dove si è occupato di svariati aspetti del design. Dopodiché, sarebbero trascorsi ben 32 anni prima che venisse coinvolto in un altro gioco di Dragon Ball, ossia Dragon Ball FighterZ: per quest’ultimo ha disegnato l’Androide 21, che verrà canonizzato nel film cinematografico Super Hero. In seguito, ha realizzato il protagonista di Dragon Ball Legends, un saiyan di nome Shallot, e un demone suo alleato, Zahha, mentre per Dragon Ball Z: Kakarot, una fedele rivisitazione elettronica del manga, ha creato un nuovo membro della Ginyu Force, Bonyu. Inoltre, è tornato a collaborare con Sakaguchi realizzando un diorama per il suo gioco di ruolo Fantasian, e ha riabbracciato la sua passione per robot e meccaniche progettando il Beeman 500SS, un automa da combattimento che compare del videogioco Gyrozetter, tratto dall’omonimo manga, nel 2013. In generale, le sue contribuzioni non sono mai state particolarmente continuative, ma lo stile estremamente caratteristico dei personaggi da lui modellati risulta sempre riconoscibile da chiunque, appassionato e non, e resterà un’imperitura testimonianza della sua passione artistica in qualunque formato si sia concretizzata.

 

Gioca da quando ha messo per la prima volta gli occhi sul suo Commodore 64 e da allora fa poco altro, nonostante porti avanti un lavoro di facciata per procurarsi il cibo. Per lui i giochi si dividono in due grandi categorie: belli e brutti. Prima che iniziasse a sfogliare le riviste del settore erano tutti belli, in realtà, poi gli è stato insegnato che non poteva divertirsi anche con certe ciofeche invereconde. A quel punto, ha smesso di leggere.