The Last of Us: la recensione di VMAG

Potremmo aprire questa recensione in modo ovvio e diretto, evitando tante, forse troppe, righe di testo. Allora per i più pigri diciamolo pure: The Last of Us è davvero quella perla di fine generazione che stavamo tanto aspettando. Parliamo di un gioco eccelso sotto quasi ogni punto di vista che, virando nettamente da quello che è l’imprinting imposto di precedenti lavori di Naughty Dog (Uncharted su tutti), ci consegna tra le mani un prodotto profondo e coinvolgente. The Last of Us è insomma stupendo e potremmo chiudere qui, senza aggiungere altro. Il punto è: quanti e quali motivi hanno fatto di questa attesa esclusiva PS3 un appuntamento immancabile di questo 2013? Questa, come si suol dire, “è una storia che merita di essere raccontata”.

Sono tantissimi i media che nel corso degli anni hanno trattato il tema del crepuscolo dell’umanità. Basti pensare alla letteratura, ai fumetti o anche solo ai film, che nelle più recenti produzioni hanno affrontato temi che, anche solo concettualmente, sono vicinissimi a quelli dello Script di The Last of Us. Giocando la meraviglia Naughty Dog è impossibile non pensare alle solitarie camminate di Will Smith per i grattacieli di “Io Sono Leggenda”, o ai rumori sinistri che si annidavano nei campi di grano di “Signs”, senza contare la disperata caduta verso l’oblio dei personaggi di “The Walking Dead”. The Last of Us è in tal senso una summa del filone post-apocalittico più recente sebbene la parola “summa” sia quanto mai riduttiva dato che il titolo gode invece di una personalità forte, decisa e assolutamente rifinita. Disgregatosi il tessuto sociale in seguito a un nuovo ceppo di funghi parassiti, i Cordyceps, il più dell’umanità è oggi alla mercé dell’infezione, tra chi è scampato al contagio e chi ne è invece rimasto vittima, tramutandosi in una creatura violenta e mostruosa. Il fungo pare invincibile e inattaccabile. Si lega al suo ospite in modo indissolubile, viaggiando sotto forma di spore aeree e una volta attecchito, si insinua nella corteccia celebrale modificando comportamenti e aspetto fisico. Una cura, per quanto evocata, pare inesistente e il mondo è ormai collassato. Le città sono nugoli di detriti, macerie e cadaveri. I superstiti, asserragliati in piccoli e chiusi sobborghi cittadini, vivono nella paura della legge marziale che il governo, con pugno fermo, fa rispettare onde evitare il contagio. Il mondo adesso è questo, violenza o poco più. Ai pochi che tentano di sfuggire al controllo, l’alternativa non è altro che una vita vissuta nel pericolo di ciò che si nasconde oltre le mura. Ove non vi è la legge marziale, regna infatti incontrastata quella della natura.

In questo mondo che “è andato avanti” da sé, ci imbattiamo in Joel. Un uomo chiuso, burbero, segnato da un passato che nonostante la lontananza sembra marchiarlo ancora, tormentandolo di notte con incubi turbolenti. Protagonista nelle mani del giocatore, Joel è un sopravvissuto ma è ormai disilluso dal mondo è dalla gente. È uno spettatore che attende la fine del mondo, cercando di sopravvivere come e quanto può. Questa filosofia di vita, certamente allo sbaraglio, lo ha portato, nei vent’anni del contagio, a diventare una sorta di mercenario, di giorno in giorno alla ricerca di contatti e strumenti per portare avanti traffici più o meno illeciti di beni e munizioni. Sarà proprio nel corso di una delle sue “missioni”, che Joel si imbatterà in Ellie, una ragazza nata e cresciuta nella Boston contagiata, e pertanto all’oscuro di quello che era il mondo prima che andasse tutto a rotoli. La ragazza, dapprima un peso, sarà in effetti la nuova, fondamentale, missione del protagonista che, essendo un navigato contrabbandiere, dovrà scortarla dalle cosiddette Luci, un gruppo di superstiti dissidenti in lotta contro il regime militarizzato. Come è lecito attendersi, il viaggio si farà molto più duro e complesso di quello che ci si aspetterebbe e, partendo da Boston, ci permetterà di attraversare diversi stati di quelli che furono gli USA: Massachusetts, Utah, Colorado, il tutto in un mondo ostile in cui la discesa verso l’amoralità è ormai all’ordine del giorno. Come se non bastasse, poi, il pericolo di viaggiare in zone contaminate e piegate dallo sciacallaggio, i due dovranno poi affrontare i Ticker, ossia gli esseri umani vittime del contagio il cui aspetto è ormai irrimediabilmente deformato.

Aggressivi, rapidi e letali, i ticker saranno una spina nel fianco per gran parte dell’avventura, lasciando il giocatore in un costante senso di pericolo e inadeguatezza. I primi incontri con i nemici, i loro movimenti scattosi, nonché il loro caratteristico verso (Tess, compagna di Joel, lo definisce un “tick”), spiegano chiaramente le intenzioni del team di sviluppare un titolo assolutamente opposto al tono scanzonato delle precedenti produzioni che, talvolta anche solo minimamente, hanno mantenuto un profilo spaccone e chiassoso. The Last of Us è agli antipodi di tutto questo. È un viaggio introspettivo, fatti di momenti di silenzio e riflessione. Non bastassero le dinamiche del gameplay, la cosa è chiara persino nei dialoghi, o nelle brevi ma profonde interazioni tra Joel e Ellie. Il primo è ormai consapevole della fine del mondo, e guarda a quel che resta dell’umanità quasi con disprezzo, senza più chiedersi se un giorno di vita in più valga uccidere a sangue freddo. Ellie, dal canto suo, è all’oscuro di tutto ciò che era il mondo pregresso e non mancherà di guardare con curiosità alle cose che ancora non h avuto modo di conoscere nel corso della sua giovane vita. Tra i due, Ellie, sarà anche la meno avvezza all’omicidio, lasciandoci alla fine di ogni scontro sempre con un interrogativo morale aperto: quello che abbiamo fatto è giusto? La sopravvivenza vale la nostra moralità?

Sopravvivenza non è un termine che si sceglie a cuor leggero. The Last of Us è un survival game puro, come mai ce ne saremmo aspettati da chi, proprio con Uncharted, ci aveva abituato a dimenticare ogni forma di razionamento di armi e viveri. Il mondo di Joel e Ellie, ormai allo sbaraglio, richiede ponderatezza. Chi è sopravvissuto sino a oggi, ha potuto farlo perché ha saputo evitare o contenere i guai. La premessa del gameplay è apparentemente morale, più che tecnica: prima o poi qualcosa andrà storto. E credeteci, lo farà e quindi occorrerà essere intelligenti e preparati.
Complice alcune scelte tecniche apparentemente insensate, come una telecamera molto lenta rispetto alla media odierna, o un personaggio pesante e in parte incapace, The Last of Us mette al centro dell’attenzione del giocatore l’uomo comune, il sig. nessuno, uno che, probabilmente, prima che il mondo finisse aveva una vita piuttosto normale. Queste premesse sono doverose in termini d gameplay e definiscono, nel dettaglio, quella che è la complessiva esperienza di gioco fatta di esplorazione, circospezione e ponderatezza nell’approcciarsi alle situazioni che il gioco, con il trascorrere delle sue circa 15 ore, ci presenterà. Staccandosi dai tanti cliché del genere, Naughty Dog ha imbastito un impianto ludico che nella sua semplicità sa trovare forza e profondità, puntando all’azione ma con un approccio molto atipico.

Ove molti esponenti del genere survival sono comunque virati verso sparatorie infarcite di crafting, The Last of Us propone un’attenzione meticolosa all’ambiente, ai nemici e alle proprie scorte, instaurando quello che di fatto è un rapporto tra il giocatore e l’ambiente circostante. Privo di ogni velleità scriptata, il gioco si regge in piedi da sé, per mezzo dell’IA che muove i nostri nemici e grazie alla possibilità di raccogliere continuamente oggetti utili alla sopravvivenza, siano essi una trave, un paio di forbici o un comune mattone. L‘idea, oltre a sposarsi perfettamente con lo script di un mondo allo sbaraglio, funziona anche benissimo, con un inatteso e ritrovato piacere nella pianificazione e nella sfida. I nemici godono infatti di routine diverse e variabili le cui decisioni sono prese in base ai contesti e non agli script. Questo, unito a degli ambienti immensi e dall’esplorazione libera, permettono al giocatore di approcciarsi come vuole, chiarendo sin da subito che l’idiozia scavezzacollo sarà punita duramente.

Si definisce quindi un ritmo di gioco particolarissimo, e all’inizio quasi spiazzante. Nonostante le premesse  ci si sente quasi obbligati a caricare a testa bassa, salvo poi rendersi conto che si tratta di un cliché che la produzione non ha intenzione di percorrere. Il ritmo del gioco è teso, particolare, assolutamente “sensoriale” nella sua necessità di aguzzare occhi e orecchie alla ricerca tanto di oggetti quanto di nemici. A conferma di ciò, il team a ben pensato di inserire nel gioco la cosiddetta modalità “ascolto” che, al prezzo di uno schermo in bianco e nero, ci permette di percepire entro un certo raggio d’azione i rumori emessi dai nemici, così da identificarli nello spazio. Questo sistema è fondamentalmente la base che premette una varietà di approcci al gioco multipla. Tante e variegate sono infatti le opzioni per il giocatore, soprattutto quando dopo le prime ore di gioco, il menù di creazione di oggetti in tempo reale ci permetterà di costruire armi più complesse e interessanti. Si chiude il quadro con un ampio set di abilità potenziabili in cui, tuttavia, saremo ancora una volta premiati solo tramite la ricerca e la raccolta di apposite pillole, spingendo quindi in modo prepotente l’acceleratore sulle necessità di esplorazione e ricerca cosa che, di fatto, ci pare più che coerente con il concept del gioco.

Il quadro è poi completato da tante e diverse scelte registiche e artistiche che fanno del gioco un crocevia perfetto tra narrazione, azione, sopravvivenza e paura. Luci flebili, rumori distanti, sezioni di gioco completamente al buio: The Last of Us mesce con alchimia le più semplici tematiche dell’orrore restituendoci sensazioni di costante paura, nonché quel senso di inadeguatezza che, data la situazione, non può che farci partecipi della sofferenza dei protagonisti. E quando pare essersi abituati a brancolare nel buio, ecco che tutto cambia e ci si apre un paesaggio luminoso e rigoglioso in cui magari avere un approccio, se possibile, furtivo e distaccato. La situazione in cui versiamo sarà quindi sempre precaria, potenzialmente letale, certamente punitiva. In tal senso si tratta forse di una delle esperienze di gioco più profonde degli ultimi anni, capace talvolta di restituire un reale senso di sofferenza e disagio. Joel, splendidamente caratterizzato, e Ellie, fragile e illusa, sono in tal senso la coppia perfetta per mostrarci in modo chiaro e brutale le barbarie del mondo, espresse qui e li per mezzo di cadaveri, sciacallaggi e sofferenze. La cosa si esprime perfettamente non solo nei piccoli gesti e nelle animazioni degli attori poligonali (sempre dettagliate, precise e contestualizzate) ma anche nei dialoghi e negli scontri con combattimenti corpo a corpo rozzi, violenti, disperati, come ci si aspetterebbe da chi è ormai convinto di non avere più nulla da perdere.

Chi gioca, da sempre, i titoli di Naughty Dog sa quanto il team sia attento ai dettagli, riuscendo sempre in qualche modo a fare la differenza. Basta pensare ai movimenti di Nathan Drake tra la gente, al suo inciampare nella sabbia, ai suoi vestiti bagnati dopo una nuotata. Tutto questo, e anche molto di più, sono parte integrante di The Last of Us tanto che partendo da una grafica assolutamente impressionante per poligoni e texture sino alle animazioni, ci troviamo dinanzi a un prodotto di qualità assoluta. Il mondo di gioco, consumato e decadente, è perfettamente restituito da dettagli rugginosi e smunti, così come dai colori accesi di una natura che sta facendo di nuovo il suo corso. In un gioco, poi, in cui i sensi sono tutto, non poteva mancare un’attenzione smodata per il comparto sonoro che fa delle campionature e delle musiche il suo cavallo di battaglia. La colonna sonora, su tutti, si distingue per aderenza e effetti, immergendoci in un mondo quasi ovattato e talvolta silenzioso, come ci si aspetterebbe da un paesaggio sconfinato assolutamente vuoto. Il gioco è quindi una vera e propria meraviglia dell’acustica, risultando perfetto sia per il modo in cui campionature  e personaggi si mescolano, sia per l’abilità nel sapere quando e come interrompere la colonna sonora, lasciando il giocatore da solo con la sua disperazione, con i suoi problemi, con lo spettro di un mondo che muore. A farla da padrone, su tutti, gli ambienti di gioco che pur contendendosi lo scettro della bellezza con dei personaggi riccamente rifiniti, restano comunque di una bellezza visiva inarrivabile e impressionante, soprattutto grazie poi a una profondità di campo che permette di godersi ampie fette del mondo di gioco.

Sempre tecnicamente parlando non mancano poi finezze che vanno persino a influire sul gameplay, definendo una volta per tutte la qualità del team di sviluppo. Joel è infatti pesante, dall’incedere stanco e non gode della velocità di telecamera di Nathan, condensando sempre più forte l’idea di un uomo stanco e inadatto alle circostanze. Per quanto brutale e scattante, è poi incapace di ricevere molti colpi, così come impreciso nel mirare con la pistola, restituendoci un gameplay artisticamente e ludicamente “fisico”, concentrato tanto sulle prospettive che il mondo ci offre, tanto sulle caratteristiche del nostro sfortunato personaggio.

Naughty Dog gioca e rigioca con meccaniche che si pensava non le fossero avvezze, mescolando tematiche profonde e complesse. The Last of Us è un gioco per certi versi semplice, la cui semplicità tuttavia sorprende e meraviglia, regalandoci un’avventura dal piglio apparentemente pacato, ma di assoluto coinvolgimento. Il team ci sorprende con un prodotto superlativo, che fonde meccaniche action, allo stealth sino all’horror con il risultato di un prodotto perfetto e avvinghiante. Il viaggio di Joel e Ellie è un viaggio che nessuno dovrebbe farsi mancare. È un viaggio profondo, maturo, fuori contesto rispetto alla media cui ormai sembriamo esserci abituati da tanto, troppo, tempo. È la discesa negli anfratti oscuri della civiltà, rappresentati più che degnamente da quelle attenzioni che il team sa infondere nei suoi prodotti. Basta un giro per il mondo di gioco per rendersi conto che qui, di umano, non resta nulla. The Last of Us in tal senso restituisce più che una storia, tante storie: quelle dei vivi, quelle dei morti, quelle di chi ha perso le speranze e di chi invece ancora ne ha. È il gioco che molti aspettavano, e che tanti si renderanno conto di amare, un’esperienza senza sé e senza ma che chiude perfettamente l’escalation professionale di Naughty Dog su Playstation 3 attraverso uno script complesso e maturo che, seppur citando in modo serrato certi concetti tanto cari alla fantascienza, resta incredibilmente unico, estroso, aderente e raffinato.